vai al contenuto principale

Ruanda, il genocidio è indelebile, ma insieme possiamo tornare a guardare il futuro

Un genocidio non passa, non si supera; un genocidio è un male indicibile che resta inchiodato nella mente, nei corpi, nei cuori dei sopravvissuti. Un genocidio è sempre trionfante, si impone anche quando la distesa di cadaveri è stata seppellita, perché l’orrore resta negli occhi, l’odore nelle narici, il sangue sulle mani. Il genocidio dei Tutsi in Rwanda è accaduto nella primavera del 1994, eppure non è mai andato via; i testimoni non hanno mai smesso di ricordare e di ripetere “Kwibuka”, che in lingua kinyarwanda significa ricordo, ma anche resilienza e coraggio. Da allora sono nate nuove generazioni, eppure la memoria del genocidio è ancora qui, in perenne costruzione; quella memoria è tramandata nei monumenti e nei riti, nei libri e nelle poesie, nei film e nelle canzoni; è diventata un ancoraggio per affrontare il presente e una necessità per pensarsi nel futuro.
Nella società rwandese contemporanea, il genocidio è imprescindibile, è un abisso di violenza che ha spalancato le sue fauci nell’aprile di 27 anni fa, ma che era cominciato prima con una lunga preparazione fatta di odio crescente, e che è proseguito dopo, fino ai nostri giorni, in una distesa di dolore e desolazione da cui si cerca di uscire, senza tuttavia voler dimenticare. L’antropologa statunitense Nancy Scheper-Hughes ha coniato l’espressione “continuum genocida”, che evidenzia quanto la pratica isolata e “visibile” del massacro sia, in realtà, preparata e sfrangiata in una moltitudine indeterminata di «piccole guerre e genocidi invisibili», di azioni quotidiane gravi, ma limitate, condotte negli spazi sociali di scuole pubbliche, sale d’ospedale, pronto soccorso, case di cura, aule di tribunale, prigioni… e che, di fatto, anticipano l’atto di morte, quello abominevole e incommensurabile. Il genocidio comincia a scuola, nei media, nella cultura; il genocidio non è un’esplosione immediata di odio, ma è un lungo processo che comincia con le parole, delle semplici parole. L’idea del continuum, dunque, spiega come sia possibile la progressiva disumanizzazione dell’altro, al punto da ridurlo a non-persona, a mostro, a cosa, la cui vita, evidentemente, poi si può cancellare con estrema facilità. La banalità del male si compie per mano dei carnefici, della loro soggettività, eppure non è mai occasionale, perché le atrocità sono possibili solo in un contesto che le rende pensabili o che le tollera, ad esempio con il silenzio. La normalità della violenza, cioè, è il prodotto di esclusione sociale, deumanizzazione e depersonalizzazione che si stratificano nel tempo e che, nel caso rwandese, erano in atto da anni, ad opera del regime dittatoriale e apertamente razzista del presidente Juvénal Habyarimana. Evidentemente, però, questo fu possibile anche con l’indifferenza della comunità internazionale; ed è in questo punto di congiunzione che si situa il discorso di ieri di Emmanuel Macron, presidente della Francia, volato in Rwanda per compiere un gesto atteso da quasi tre decenni.
Macron ha riconosciuto che «la Francia ha un ruolo, una storia e una responsabilità politica in quel che è accaduto in Rwanda», per cui «la Francia ha un dovere, quello di guardare la storia in faccia e di riconoscere che nel 1994 non aveva ascoltato, né compreso». Il giornalista Julien Pain ha recuperato un filmato dell’emittente Antenne 2, in cui Jean Carbonare, attivista per la decolonizzazione e promotore di innumerevoli progetti di sviluppo sostenibile in molti paesi africani, il 24 gennaio 1993 – un anno prima del genocidio – avvertì del rischio che si correva in Rwanda, dopo aver rivelato l’entità dei massacri perpetrati nel paese tra il 1991 e il 1992: «Sono molto più che scontri etnici, si tratta di una politica organizzata dietro la quale c’è un meccanismo che si sta mettendo in moto, in cui si parla di “purificazione etnica”, di “genocidio”; il nostro paese [la Francia], che supporta militarmente e finanziariamente questo sistema, ha una responsabilità, noi siamo responsabili».

Il 26 marzo scorso, sono stati diffusi i risultati di un’indagine durata due anni negli archivi francesi, condotta da una commissione nominata dallo stesso Macron per fare luce sul coinvolgimento della Francia nel genocidio rwandese. Il gruppo di 14 storici, coordinato da Vincent Duclert, ha appurato che «la Francia tra il 1990 e il 1994 sostenne un regime che incoraggiava i massacri razzisti; è rimasta cieca di fronte alla preparazione del genocidio, e questo allineamento con il potere rwandese deriva da una volontà del Capo dello Stato e della Presidenza della Repubblica». Dopo due mesi da quel rapporto, l’altro giorno Macron è volato in Rwanda e ha esplicitamente ammesso le pesanti responsabilità del suo paese nel genocidio dei Tutsi nel 1994, ma ha anche sottolineato che «gli assassini non avevano la faccia della Francia», dal momento che non sono appurate responsabilità dirette sui massacri, ma “solo” di sostegno al regime dittatoriale e intollerante di Habyarimana.
Per queste ragioni, Macron ha trovato una formula “alambiquée” che alcuni hanno ritenuto insufficiente: «Vengo qui a riconoscere le nostre responsabilità; troppo tempo è passato in cui il silenzio ha prevalso sull’esame della verità. Solo chi ha attraversato la notte può forse perdonarci. Darci il dono di perdonarci». Ha evitato di chiedere scusa, eppure ha chiesto perdono. È abbastanza? È ancora troppo poco? Non sta a noi stabilirlo, ma è corretto osservare le reazioni dei rwandesi. Ma quali rwandesi? Dicevo che il discorso di Macron si pone nel punto di congiunzione di varie frizioni e di numerosi, fragili equilibri: il piano politico interno francese, senza dimenticare che l’anno prossimo ci saranno le elezioni presidenziali; il piano politico interno rwandese che, per quanto dominato dalla figura di Paul Kagame, resta conflittuale; il piano geopolitico della regione dei Grandi Laghi, in cui le tensioni tra Rwanda, Burundi e Nord Kivu (RDCongo) non si sono mai sopite e, anzi, tuttora fanno quotidianamente registrare episodi preoccupanti; il piano geopolitico più ampio della francofonia e dei rapporti tra Africa ed Europa; il piano etico e storico, in cui entrano in questione la figura carismatica dell’ex presidente francese Mitterand e l’onda lunga del colonialismo europeo.
Macron poteva dire di più, poteva avere più coraggio e pronunciare la parola “scusa” e sarebbe stato più giusto, ma per la realpolitik sembra che l’aver chiesto perdono sia sufficiente. Il presidente Paul Kagame, da sempre molto duro con la Francia, ieri ha cominciato la conferenza stampa congiunta definendo Macron “amico mio” e poi proseguendo con un forte apprezzamento di quanto aveva pronunciato poco prima: «Oggi è un momento per parlare al presente e al futuro, riflettendo sul passato che ci ha portato qui. Il presidente ha appena rilasciato un’importante dichiarazione al memoriale del genocidio di Kigali. Questo è stato un discorso potente, con un significato speciale per ciò che sta accadendo ora, e che risuonerà ben oltre il Rwanda. Le sue parole erano qualcosa di più prezioso delle scuse: erano la verità».

Kagame ha riconosciuto il gesto compiuto da Macron sul piano politico e morale, per cui ha aggiunto: «era importante non affrettare il processo, i fatti dovevano essere adeguatamente accertati. Anche le nostre rispettive società avevano bisogno della possibilità di discutere e capire. Un passo dopo l’altro, fino ad arrivare a questo punto, che è di per sé un altro passo, particolarmente importante». Kagame ha aggiunto che «la verità guarisce» e la verità è la base su cui si fonda ogni progetto di unità e riconciliazione, tanto sul piano nazionale che su quello internazionale. Tuttavia, il concetto di “verità” va maneggiato con cautela e, soprattutto, non può mai procedere lontano da quello di “giustizia”, per cui sarà necessaria ancora molta collaborazione tra Francia e Rwanda per assicurare ai tribunali i massacratori del 1994. Un esempio è avvenuto un anno fa, il 16 maggio 2020, quando a Asnières-sur-Seine, a nord di Parigi, fu arrestato Félicien Kabuga, considerato uno dei principali finanziatori del genocidio e fondatore delle milizie Interahamwe che, armate di machete e armi da fuoco, si macchiarono di violenze abominevoli. Kabuga, che viveva indisturbato con una falsa identità, è considerato «l’Adolf Eichmann del genocidio del 1994», a cui ora spetta un processo presso la Corte internazionale di giustizia dell’Aia. Intanto ci si domanda come sia stato possibile che un individuo del genere avesse potuto trovare rifugio in Francia, e chissà quanti altri genocidi si trovano attualmente nel paese europeo.
La Francia non capì cosa si stesse preparando e non capì cosa stesse accadendo, ma la Francia non ha capito neanche dopo, coprendo, di fatto, molti massacratori per troppi decenni. Da ieri si spera che sia cominciata una nuova fase: Macron ha annunciato il ritorno di un ambasciatore francese in Rwanda e ha auspicato che le nuove generazioni di francesi e di rwandesi possano dialogare e collaborare per un arricchimento comune. Tutto questo va preparato, impostato, reso possibile. La conduttrice radiofonica rwandese Aissa M. Cyiza, particolarmente nota nel suo paese, ieri ha scritto che «“Ndibuka” [Mi ricordo], “Un milione di Tutsi” e “Perdono” erano le parole che stavo aspettando oggi dal presidente Macron. Ora comincia una nuova relazione tra Rwanda e Francia».
Il genocidio non andrà mai via, non può essere dimenticato, è indelebile. Le testimonianze dei sopravvissuti o dei “figli del genocidio”, coloro che sono nati dopo, crescendo con il peso della memoria di quella enormità, affermano che il genocidio è intrappolato dentro di loro: convivono con un mostro, con un’assenza, con un macigno, con un vuoto. Dove sono i resti dei propri familiari? Dove sono sepolte le proprie origini? Dove si può andare a ricucire lo squarcio tra generazioni, tra etnie, tra popoli, tra nazioni? Non sono in grado di dire se i gesti e le parole di Macron possano aiutare la pacificazione interiore e collettiva, ma so che vi dovranno fare seguito altre azioni concrete, volte alla cooperazione e al dialogo, alla giustizia e alla verità. Ritengo che in questo processo siano tutti coinvolti, noi tutti: dopo la Francia, l’intera comunità internazionale dovrebbe riflettere sul suo silenzio di allora e sull’indifferenza verso i “genocidi quotidiani” che tuttora insanguinano tante comunità. Il cantante e scrittore franco-rwandese-burundese Gaël Faye ce lo ha ricordato efficacemente nel suo brano “Petit Pays” di pochi anni fa, dove si rivolge al suo “piccolo paese”, un paese dell’anima, senza confini tra Rwanda e Burundi, abbandonato da tutti mentre si scatenava l’orrore: «Petit pays, pendant trois mois, tout le monde t’a laissé seul […] Il fallait reconstruire mon petit pays sur des ossements / Des fosses communes et puis nos cauchemars incessants / Petit pays: te faire sourire sera ma rédemption […] Seulement laisse-moi pleurer quand arrivera ce maudit mois d’avril / Tu m’as appris le pardon pour que je fasse peau neuve / Petit pays dans l’ombre le diable continue ses manœuvres / Tu veux vivre malgré les cauchemars qui te hantent»

(«Piccolo paese, per tre mesi tutti ti hanno lasciato solo […] Bisognava ricostuire il mio piccolo paese sulle ossa / sulle fosse comuni e poi i nostri incubi incessanti / Piccolo paese: farti sorridere sarà la mia redenzione […] Lasciami piangere solo quando arriva questo maledetto mese di aprile / Mi hai insegnato il perdono in modo che potessi avere una nuova pelle / Piccolo paese, nell’ombra il diavolo continua le sue manovre / Tu vuoi vivere nonostante gli incubi che ti perseguitano»)

Torna su