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Nata Ribelle: l’ultimo libro della scrittrice camerunese Yvette Samnick

In occasione delle Giornata internazionale della donna, Focus on Africa ha intervistato la scrittrice Yvette Samnick, già autrice di un libro che ha avuto un notevole successo: Perché ti amo.
Dottoressa Samnick, tra pochi giorni sarà pubblicato il suo ultimo libro, intitolato “Nata Ribelle”. Ci può dire di cosa tratta?
Nata Ribelle nasce dalle conversazioni tra una madre e una figlia. Il testo si rivolge però ad intere generazioni di donne e di uomini e rimette al centro il concetto stesso dei diritti delle donne nei diversi contesti del mondo. Il testo vuole rimettere al centro del dibattito il tema del patriarcato, come questo assunto prende forma in relazione ai diversi contesti culturali in cui viene praticato e di come esso si manifesta. La protagonista di questo libro è mia madre che descrive la società in cui lei vive.

Le battaglie femministe che ha portato avanti attraverso l’educazione dei figli, ma senza confrontarsi ad un altro modello politico che qui, in questa parte di mondo, oggi chiamiamo con più disinvoltura femminismo. Mia madre di fatto ha teorizzato e praticato un sito di resistenza al patriarcato nel suo contesto di vita per “contaminare” la società in cui vive attraverso l’educazione. Con il suo agire mia madre ha trasformato la cucina in un luogo di autodeterminazione ed emancipazione, ma per il femminismo bianco questo è simbolicamente il luogo di sottomissione per secoli relegato alle donne. La cucina per lei è uno spazio politico che non determina la repressione delle donne. Nel suo contesto di origine ha sfruttato questo spazio per idealizzare le donne. Al contrario di quanto teorizzato dal femminismo occidentale ha reso questo spazio un luogo di resistenza alla cultura patriarcale. Mia madre ha educato i figli in cucina, perché solo così potevano apprezzare ogni posto della casa. Attraverso questa valorizzazione della casa ha potuto rompere gli stereotipi che creano i ruoli di genere. Ho scritto questa storia, molto autobiografica, con l’obiettivo di rendere visibile le nostre narrazioni, le narrazioni delle donne del sud del mondo. Voglio raccontare le battaglie delle nostre madri per l’emancipazione femminile attraverso i paradigmi della nostra storia, del nostro processo. Mia madre e molte altre donne in Africa, nel sud del mondo con conoscono l’assunto politico del femminismo, ma lo praticano e lo pratichiamo con i nostri strumenti, con le nostre parole e con la nostra storia. Molto spesso queste battaglie non corrispondono a quelle del femminismo in Italia, a volte non sono neppure rassicurante per le femministe bianche, vedi appunto la rivendicazione della cucina come luogo di emancipazione, come racconto nel mio libro. Se ci raccontiamo, però, attraverso i nostri occhi e la nostra storia, guadagniamo il diritto di contare e sfaldiamo il razzismo del colonialismo e dell’eurocentrismo. Il femminismo bianco deve capire che non abbiamo bisogno di essere salvate, lo sappiamo già fare.

A suo giudizio, negli ultimi anni la situazione dei diritti delle donne in Africa è migliorata o peggiorata?Quando si fa questa domanda è importante sempre sapere da dove la stai facendo, perché il rischio è la strumentalizzazione delle parole e dei discorsi, non riconoscendo le battaglie che le donne nere portano avanti ogni giorno e che spesso non sono riconosciute dalle femministe occidentale.
Perché parlo di non riconoscere? Il punto è che queste battaglie spesso non sono nominate o riconosciute, perché le modalità in cui vengono affrontate non si iscrivono nello stesso percorso di conquista dei diritti delle donne occidentali.
Quando vengono notate, sono scritte in un percorso evolutivo letto con paradigmi occidentali SU UN MODELLO OCCIDENTALE bianco (e mediamente ricco, di solito), considerato la massima evoluzione di conquista dei diritti delle donne.
Mi rifiuto di scrivere le battaglie delle donne della mia terra e inserirle in un percorso tale. Se vi rispondo che la situazione è migliorata, il rischio è un recupero, cioè abbiamo preso il modello occidentale come obiettivo e ci impegniamo a raggiungerlo. Se dico che è peggiorata, allora rassicuro le tesi per cui noi siamo un popolo arretrato, dove le donne sono sempre sottomesse agli uomini e hanno bisogno di essere salvate.

Sono gli stessi discorsi, le stesse narrazioni che sento già sull’immigrazione e sulle donne migranti che vengono dagli stessi contesti da cui provengo anch’io.
Questo libro è un esempio sul fatto che se le storie non sono rese pubbliche, vuol dire che non esistono. È solo che gli spazi in cui vengono raccontate non si sono mai adeguati ad un modello e rimangono circoscritti nei territori dove comunque cercano di conquistare ancora più terreno. E quando essi escono fuori, l’intento non è quello di prendere per modello, ma produrre una contro-narrazione per stabilire un equilibro nelle battaglie per i diritti delle donne.
Il punto è capire se questa domanda che è appena stata fatta si è svuotata di pregiudizi e stereotipi nei confronti delle donne del Sud, delle battaglie che stanno portando avanti per migliorare nei loro contesti di vita le loro condizioni.
Io non risponderò. Io voglio valorizzare gli sforzi che fanno quotidianamente oggi le donne, le giovane generazioni contro questa cultura maschilista e sessista che continua a fare danni alle donne e alla società tutta. Un esempio: ho iniziato un ciclo di formazione online per la mia associazione in Camerun sulle violenze di genere e i miei iscritti sono al 90% maschi.
Questo già vi fa capire che la contaminazione di cui parla mia madre nel libro è stata avviata da tempo. Non cerchiamo di essere come le donne occidentali, usiamo gli strumenti che abbiamo a disposizione e li adattiamo alle nostre battaglie quotidiane.
Hai la risposta alla tua domanda. Valorizzò le resistenze delle donne come mia madre, che sono tante: quelle di donne come lei con i loro figli e le loro figlie.

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