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La politica africana del Governo Meloni: Il Piano Mattei, tra sfide migratorie e opportunità di Sviluppo

Il 29 gennaio 2024, direttamente dalla presidenza del G7, il governo italiano ha organizzato a Roma il Summit Italia-Africa. Il vertice costituito dal governo Meloni ha riunito 27 capi di stato e di governi africani e numerose delegazioni. È stato un notevole successo poiché è riuscito non solo a garantire una buona rappresentanza delle autorità africane, ma anche a coinvolgere importanti funzionari europei, guidati da Ursula Von Der Leyen, e le principali agenzie delle Nazioni Unite. Ciò che è scaturito al termine di questo incontro fu l’annuncio del cosiddetto “Piano Mattei”; il quale è simbolico per diversi motivi: recupera in modo funzionale la comunicazione politica della figura di Enrico Mattei, fondatore di ENI; rivendica la continuità con una politica estera incentrata sull’approvvigionamento energetico rappresentato dall’ENI ed infine evidenzia la competizione con la Francia, che sta perdendo la sua influenza nei paesi africani.

Questo piano pretende di stabilizzare economicamente, socialmente e politicamente i Paesi africani per contrastare l’immigrazione. Il ricordo di Enrico Mattei non è affatto neutro perché sembra evocare le rivalità franco-italiane nel Maghreb degli anni 50, come il sostegno dato dall’ENI all’Algeria durante la guerra d’indipendenza. Inoltre, come sappiamo, le circostanze della morte di Enrico Mattei nel 1962 non sono certe.

Il vertice è stata una esibizione di successo, dobbiamo però guardare alla sostanza di questa politica africana.

Già nel discorso di insediamento alla Camera dei deputati del 25 ottobre 2022, Giorgia Meloni aveva sorpreso tutti annunciando un “Piano Mattei per l’Africa”, presentato come un modello virtuoso di collaborazione e crescita tra Europa e i paesi africani. Il piano propone sia di eliminare le cause dell’immigrazione sia di combattere la diffusione del radicalismo islamico in Africa. Per finanziare questo progetto, il governo italiano intende affidarsi a imprese nazionali ed europee, tra cui anche al colosso italiano degli idrocarburi ENI.

Meloni ha definito il Piano Mattei come un tentativo di scrivere “una nuova pagina” nelle relazioni con l’Africa con un approccio “compassionevole” e “non predatorio”.

Il 15 marzo 2024 in occasione della prima riunione della cabina di regia del Piano Mattei a Palazzo Chigi, la Presidente Meloni ha affermato: “Nessun atteggiamento paternalistico o caritatevole!” Aggiungendo poi: “questa capacità di relazionarsi alla pari è molto apprezzata dagli interlocutori africani che sono stanchi di essere considerati o trattati come persone che devono essere salvate da qualcosa”. A questo riguardo va però ricordato che nessun leader africano è stato coinvolto nella stesura di questo piano, come se solo la Presidente sapesse ciò che è più utile all’Africa per il suo sviluppo economico. Durante la conferenza Italia-Africa del 29 gennaio 2024 infatti, il presidente della Commissione africana, Moussa Faki, ha criticato la dimensione unilaterale del piano Mattei dichiarando: “Avremmo voluto essere consultati”. Questa critica nasce dal timore di essere davanti a una delle già tante promesse dei Paesi europei mai però mantenute, che rivelano in realtà di voler perseguire soltanto i propri interessi. Faki ha tuttavia affermato che l’Africa è pronta a discutere il contenuto e l’attuazione del Piano.

Il 17 aprile 2024 Giorgia Meloni e i ministri Piantedosi, Bernini e Cirielli si sono presentati a Tunisi per la missione del Piano Mattei”.

“Sul tema della gestione della migrazione voglio ancora una volta ringraziare le autorità tunisine e il presidente Saied per il lavoro che cerchiamo di portare avanti insieme contro i trafficanti di esseri umani”. Così ha dichiarato la premier Meloni. “Noi sappiamo che la Tunisia non può diventare il paese di arrivo dei migranti” ha aggiunto. È evidente che il tema dell’immigrazione continua a dominare le relazioni tra Africa e Unione Europea. Esso è infatti ora al centro delle politiche europee di difesa, sviluppo e commercio.

Nell’arco di un quarto di secolo, l’inasprimento dei controlli sulla frontiera meridionale dell’unione Europea ha trasformato l’area del Mediterraneo in una frontiera comune ovvero in una zona di confinamento per coloro che cercano di migrare in Europa ma non hanno i mezzi per farlo regolarmente. 

Per comprendere appieno l’impatto negativo di questi processi, è importante guardare brevemente alla storia. Negli anni Novanta l’Unione Europea si era infatti convinta che la politica migratoria vigente fosse applicabile a ogni tipo di casistica. In quegli stessi anni, l’Africa è stata presa di mira come entità chiave nella gestione dei flussi migratori verso il continente europeo. 

Nel 1995, l’accordo di Schengen ha abolito le frontiere interne e la politica migratoria è diventata gradualmente una questione di sicurezza. Il Trattato di Amsterdam del 1997 ha istituito uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia, “comunitarizzando” le politiche in materia di visti, asilo e immigrazione a livello europeo. Al Consiglio europeo di Tampere del 1999 è stato formato il Gruppo di lavoro ad alto livello su asilo e migrazione, con la missione di sviluppare un approccio comune e trasversale alla situazione nei principali “paesi di origine e di transito” dei richiedenti asilo e dei migranti. 

Nel 2002, il Consiglio europeo di Siviglia ha proposto l’integrazione della politica di immigrazione nelle relazioni dell’Unione Europea con i Paesi terzi. L’obiettivo era affrontare le cause strutturali della migrazione attraverso i programmi di sviluppo e la creazione di opportunità di lavoro nei cosiddetti Paesidi origine e di transito. Tuttavia, l’attenzione principale era rivolta alla sicurezza il cui obiettivo era di prevenire l’attraversamento illegale delle frontiere e combattere il traffico di migranti. Questo ha portato all’esternalizzazione del controllo delle frontiere europee, processo in cui l’Unione Europea svolge o subappalta parte del controllo delle frontiere al di fuori del proprio territorio.

Dal 2005, la narrazione dominante mirava a rendere gli Stati africani corresponsabili della migrazione illegale dei loro cittadini e a stabilire una condizionalità migratoria in ogni aspetto delle relazioni tra Europa e Africa. Il passaggio successivo è stato stabilire un legame diretto tra migrazione e sviluppo.

Nel 2007, a Lisbona, è stato lanciato il “partenariato” Unione Europea-Africa su migrazione e occupazione, accompagnato da un piano d’azione e un “quadro di dialogo e cooperazione” con l’Unione africana. Nel 2011, la strategia è stata rivista per includere la mobilità, la tratta di esseri umani e la politica di asilo. L’obiettivo principale era la firma dei “partenariati per la mobilità” sugli accordi che garantiscono finanziamenti europei agli Stati africani che li sottoscrivono. Da allora, la politica migratoria europea è diventata uno strumento per la gestione della migrazione e per la politica estera. Tutti gli strumenti di cooperazione sono utilizzati per sostenere questa politica e la questione della migrazione è ora inclusa in tutti gli strumenti e le risorse dell’Unione Europea. L’agenzia Frontex, ad esempio, è responsabile della gestione delle frontiere europee e di quelle dei Paesi terzi di origine e di transito.

12 novembre 2015 è stato ufficialmente creato il Fondo fiduciario di emergenza dell’UE, con 1,8 miliardi di euro messi a disposizione dal bilancio e dal Fondo europeo di sviluppo. Questo permette una certa flessibilità, consentendo deroghe alle rigide regole degli aiuti allo sviluppo. L’UE finanzia progetti per limitare e scoraggiare la migrazione irregolare attraverso misure di contenimento. I leader africani si assumono poche responsabilità per le tragedie migratorie che colpiscono i loro popoli, permettendo all’Europa di implementare una condizionalità migratoria che influisce significativamente sull’equilibrio delle relazioni tra Europa e Africa. Nel contesto della sua politica migratoria, l’Unione europea, attraverso accordi non paritari con molti paesi di origine e di transito, utilizza l’aiuto pubblico allo sviluppo come uno strumento per gestire i flussi migratori. Nel 2023, circa il 14% degli aiuti totali dei paesi dell’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico OCSE, pari a 30miliardi di dollari, è stato destinato all’accoglienza dei rifugiati. Questa pratica include l’accoglienza dei rifugiati nell’Aiuto Pubblico allo Sviluppo (APS). Come hanno più volte sottolineato diverse organizzazioni della società civile africana ed europea, questa pratica non ha alcun effetto diretto sullo sviluppo dei paesi di origine. Pertanto, è necessario modificare i criteri dell’OCSE per separare i due tipi di assistenza: la cooperazione da un lato e l’aiuto ai rifugiati dall’altro.

Come abbiamo appena visto, le norme attuali riconoscono il principio della “responsabilità condivisa” tra Paesi di origine, transito e destinazione (Vertice della Valletta, 2015). Sono stati così anche istituiti fondi di emergenza. L’UE dovrebbe a questo punto accogliere più migrazione legale, combattendo al contempo i flussi irregolari e i trafficanti di vite umane. Nonostante la possibilità di conciliare gli interessi africani ed europei, la questione migratoria rimane una fonte di tensione, come dimostrato dagli eventi recenti tra Marocco e Spagna.

Il piano Mattei così imposto dal Governo Italiano all’Africa per ridefinire la strategia dell’Italia e dell’Europa è l’ennesima prova che l’Africa non è ancora una priorità nell’agenda europea. L’Europa non possiede un’analisi geopolitica coerente del continente, tuttavia deve affrontare una concorrenza sempre più agguerrita da parte dei Paesi emergenti (BRICS+). Il vecchio continente troppo spesso si ostina a voler vedere l’Africa solo come una vasta zona di instabilità e insicurezza, una regione periferica che potrebbe fungere da punto di raccolta negativo per la difesa degli interessi dei suoi Stati, a partire dalla lotta all’immigrazione. Inoltre, la sensazione di un interesse comune a livello europeo rimane poco condivisa, con la maggior parte degli Stati che guarda innanzitutto ai propri interessi. La questione della lotta all’immigrazione clandestina e dell’occupazione dei giovani africani è una sfida tale che non può mancare delle proposte degli Stati africani. Naturalmente l’Italia da sola non sarà in grado di rivoluzionare la situazione, poiché è principalmente responsabilità degli Stati africani. Tuttavia, è fondamentale sostenere le politiche locali in modo efficace. Si potrebbe magari proporre di concentrare la diplomazia economica e la cooperazione delle università italiane sulla formazione professionale e sull’apprendistato, che potrebbero beneficiare migliaia di giovani africani ogni anno.

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