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Repubblica Democratica del Congo, perché parlare di adozione è a volte cosa rischiosa

Il 25 settembre 2013 le autorità della Repubblica Democratica del Congo bloccarono l’uscita dal Paese di tutti i bambini che, già destinatari di una sentenza di adozione internazionale di un Tribunale congolese, erano in attesa di essere raggiunti dai genitori. Tra questi, circa 110 minori che ormai nella sostanza erano cittadini italiani. Ne è nata una vicenda complicatissima che ha avuto vasta eco nelle cronache (e megafoni strumentali nella politica). In un primo periodo a causa della lunga ma inutile permanenza a Kinshasa di un gruppo di genitori nei giorni convulsi di un tentativo di colpo di Stato, ai quali era stata promessa una soluzione della vicenda per i figli, che si trovavano in una situazione privilegiata dal punto di vista burocratico rispetto agli altri, e in seguito per il viaggio, discusso anche se dall’esito positivo, dell’allora Ministro Boschi per portare in Italia quel primo gruppo di circa 30 bambini – il viaggio “delle treccine”.  Degli altri rimasti in Congo i primi 10 giunsero in Italia solo nel gennaio del 2016. Da allora, il numero di minori congolesi abbandonati e orfani, che si trovano all’interno di strutture abbandonate a se stesse e che vivono in condizioni di inconcepibile precarietà, molto spesso sotto il livello di dignitosa sopravvivenza, è cresciuto a dismisura: alcune stime valutano che nella sola Kinshasa siano più di 15.000 i bambini di strada. Ma al crescere esplosivo delle necessità non è mai seguita una risposta soddisfacente. Al fondo della questione, infatti, esiste un problema fondamentale che pesa come un macigno: l’adozione internazionale è largamente percepita come una cosa “sporca”, un vergognoso traffico. Quanto sia pervasiva, a tutti i livelli della società congolese, la diffidenza nei confronti della possibilità di radicare rapporti d’amore tra individui tanto differenti (in un luogo dove la questione del sangue non è cosa da poco), lo attesta la dichiarazione che un deputato dell’Assemblea ha avuto modo di rilasciare nel corso dell’iter di discussione della proposta di legge di iniziativa governativa che sarebbe poi stata approvata, e che oggi regola la materia: mai più il sangue di un bambino congolese sporchi i tavoli operatori dell’Occidente. D’altronde nella memoria del popolo congolese non può che risuonare l’eco di una verità incontestabile, che tuttavia con il tempo si è trasformata in uno stereotipo: ci hanno rubato il caucciù, le banane, il rame, l’oro, i diamanti, il coltan, ora anche i bambini. Tanto che semplicemente parlare di adozione in pubblico è a volte cosa rischiosa ed espone chi se ne occupa, in particolare i dirigenti degli istituti di accoglienza, a sospetti indiscriminati se non a veri ricatti (sospetti che peraltro trovano linfa adeguata nel fatto che traffici indecenti si sono effettivamente verificati). E’ dunque più facile comprendere le ragioni delle difficoltà della rinnovata classe politica che dirige il Paese dopo la sconfitta elettorale di Joseph Kabila nel 2018, nonostante i segnali di apertura che si sono susseguiti, a praticare una collaborazione internazionale che, nello spirito della Convenzione dell’Aja, cerchi di individuare la migliore soluzione possibile per ogni minore abbandonato.

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