Skip to content

La morte di Pierre Buyoya: golpista, presidente e traghettatore del Burundi

Ieri sera, 17 dicembre, è morto a 71 anni Pierre Buyoya, che alla fine del Novecento è stato ben due volte presidente del Burundi: prima dal 1987 al 1993, poi dal 1996 al 2003, entrambe dopo un colpo di stato, ma entrambe le volte lasciando pacificamente il potere. Inizialmente la famiglia non ha fornito dettagli sulle cause del decesso, ma nel corso della mattinata alcune fonti vicine all’ex presidente hanno fatto sapere che Buyoya era affetto da Covid-19 e non avrebbe retto il trasferimento a Parigi, dove lo si voleva curare.

Dal 2012 alla fine dello scorso novembre ricopriva il ruolo di Alto rappresentante dell’Unione Africana in Mali e nel Sahel, quando è stato invitato alle dimissioni perché coinvolto in un’inchiesta per l’omicidio del suo predecessore Melchior Ndadaye, primo presidente liberamente eletto e primo presidente hutu nella storia del suo Paese per 102 giorni, dal 10 luglio al 21 ottobre del 1993, quando fu deposto ed assassinato da un golpe militare.

La vita di Buyoya è stata fortemente segnata dalla morte di Ndadaye, come d’altra parte l’intera storia recente del Burundi, perché da allora, e per 12 anni, il Paese africano è stato sconvolto da una guerra civile che ha condotto alla morte di almeno 300.000 persone. Inoltre, l’omicidio di Ndadaye è ancora un caso irrisolto che ha avuto vari effetti nel corso del tempo. Dapprima vi è stato un processo nel 1999 che ha coinvolto un certo numero di soldati di basso rango, giudicati colpevoli da una sentenza, che tuttavia gli hutu ritengono una farsa. Dopo due decenni, invece, l’argomento è tornato al centro della politica burundese quando nel 2018 è stato emanato un mandato di arresto internazionale per Buyoya e per altri ex alti ufficiali militari o ex funzionari del partito Uprona, a maggioranza tutsi, gran parte dei quali ora vive in Rwanda o in Belgio.

La figura di Pierre Buyoya è complessa e controversa, ma certamente è una delle più importanti del Burundi contemporaneo. Durante la sua prima presidenza, ad esempio, nominò Primo Ministro Adrien Sibomana, un hutu, e il suo governo fu etnicamente paritario, ambendo ad una politica di “unità e riconciliazione”, cioè di democratizzazione. È grazie a Buyoya, infatti, che nel 1991 ci fu un referendum sulla “Carta di unità nazionale” e nel 1992 una nuova Costituzione che condusse alle elezioni del 1993. In quella votazione, però, Buyoya perse contro il candidato Ndadaye e “l’architetto della democratizzazione” dovette lasciare il potere. Successivamente all’assassinio di Ndadaye il Burundi piombò nell’incubo della guerra tra hutu e tutsi, ma anche in questo caso Buyoya tornò al centro della scena con un golpe, stavolta nel 1996 contro il debole presidente Sylvestre Ntibantunganya. Sotto la sua guida, nel 2000 le parti belligeranti arrivarono a firmare gli Accordi di Arusha, sotto l’egida di Nelson Mandela, e, conformemente a quel trattato di pace, Buyoya passò il potere al suo vicepresidente hutu, Domitien Ndayizeye, il quale rimase in carica fino all’arrivo nel 2005 di Nkurunziza, ex leader ribelle hutu, poi divenuto tiranno del Paese, soprattutto dal 2015, quando si ricandidò per un terzo mandato, incostituzionale, contro cui si levò un’ondata di proteste, scontri, fughe e violenze. Come noto, Nkurunziza è morto lo scorso 8 giugno, anch’egli forse di Covid-19, sebbene non sia mai stato ufficializzato, poco dopo l’elezione del nuovo presidente, il suo delfino Èvariste Ndayishimiye, altro militare di carriera.

Da oltre 15 anni, dunque, Buyoya era diventato una figura diplomatica rispettata nel continente africano, dal momento che aveva intrapreso una carriera come osservatore elettorale internazionale per l’ONU e altri enti, ma anche come consulente dell’Unione Africana, dell’Organizzazione internazionale della Francofonia e così via. Per questa ragione, la vicenda giudiziaria sull’assassinio di Ndadaye era vista con stupore da molti organi internazionali, così come da lui stesso, che fino a pochi giorni fa la definiva uno stratagemma per fomentare divisioni e spostare l’attenzione dalla attuale crisi interna del Burundi.

 

Torna su