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A 30 anni dal genocidio contro i tutsi in Ruanda, quale futuro per la Regione dei Grandi Laghi?

Giustizia e riconciliazione

Nell’aprile del 1994, 30 anni fa, il Rwanda sprofondò nell’inferno del genocidio: circa un milione di tutsi fu ucciso in 100 giorni. Prima di quell’orrore, per molto tempo la propaganda radiofonica contribuì a creare in Rwanda un clima di avversione e di terrore: le emittenti hutu trasmettevano messaggi di incitamento al disprezzo dei tutsi, descrivendoli come nemici e traditori. Il risultato fu una vera e propria disumanizzazione dei tutsi, che poi rese possibile agli estremisti hutu – soprattutto quelli dalla milizia Interahamwe – di ucciderli senza rimorsi.

Da allora, ogni 7 aprile è la giornata di “Kwibuka”, che in lingua kinyarwanda significa ricordo, ma anche resilienza e coraggio

A distanza di tre decenni, nessuno ha dimenticato quell’orrore e come quella società fosse stata estremizzata dalla politica e dai media; tuttavia, per quanto ancora poverissimo, oggi il Rwanda è diventato uno dei Paesi più virtuosi del continente africano: come è potuto accadere? Centinaia di migliaia di persone meritavano di andare in prigione a vita, perché si erano macchiate di crimini spaventosi, eppure per far sì che la società rwandese potesse rinascere, si cercò un modo per “riparare” quelle persone e renderle nuovamente parte della collettività. Fu così che il Rwanda abolì la pena di morte e chiese l’impossibile ai sopravvissuti. Agli autori dei massacri non poteva essere chiesto nulla, solo i sopravvissuti avevano qualcosa da dare: il loro perdono.

Così, considerando l’elevato numero di imputati, la mancanza di risorse, diverse questioni di imparzialità e la necessità di riconciliazione, i processi per il Genocidio contro i Tutsi in Rwanda sono classificabili in varie tipologie. Da un lato i processi nazionali, come quelli celebrati nei tribunali ordinari (spesso terminati con condanne all’ergastolo e pene detentive) e i “Gacaca” (in italiano si pronuncia “gaciacia”, letteralmente “erba dolce”, perché si svolgono all’aperto), basati sulle tradizioni rwandesi e sul coinvolgimento della comunità, ma che hanno sollevato alcuni dubbi per la mancanza di garanzie procedurali e per l’influenza del governo. Dall’altro lato, i processi presso il Tribunale Penale Internazionale per il Rwanda (ICTR), istituito dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nel 1994 e che, fino al 2015, ha giudicato i principali responsabili del genocidiocon 93 condanne e 14 assoluzioni. Inoltre, va considerato il Meccanismo residuale per i tribunali penali internazionali (MICT), istituito nel 2010 con il compito di proteggere i testimoni e ricercare i fuggitivi, l’ultimo dei quali è stato processato nel dicembre 2023; si tratta dell’ex medico rwandese Sosthène Munyemana, condannato dalla Corte d’Assise di Parigi, in Francia, a 24 anni di reclusione per il suo ruolo negli orrori di trent’anni fa.

Memoria e resilienza

Ogni anno Kwibuka è un appuntamento molto sentito dai rwandesi, in cui il maggior pathos si raggiunge nel raccoglimento presso i memoriali di Nyamata, Murambi, Gisozi e Bisesero, e nella “Marcia del Ricordo” che conduce allo stadio Amahoro, dove i sopravvissuti raccontano le loro testimonianze.

Nel settembre 2023, i quattro siti di commemorazione sono stati inseriti dall’UNESCO nel Patrimonio dell’Umanità e per Yolande Makolo, la portavoce del governo rwandese, si tratta di un riconoscimento importante, perché “salvaguarda la memoria e contrasta il negazionismo”, ma anche perché permette di “far conoscere di più in tutto il mondo il Genocidio contro i Tutsi”, ha aggiunto Naphthali Ahishakiye, segretario esecutivo di Ibuka, l’associazione che rappresenta i sopravvissuti al genocidio.

Il memoriale di Gisozi, a Kigali, capitale del Paese, conserva i resti di circa 250.000 vittime: teschi, frammenti di ossa, vestiti strappati e immagini di cadaveri ammucchiati. Similmente, il memoriale della chiesa di Nyamata ricorda il terribile massacro di 45.000 persone in un giorno, che là avevano cercato rifugio. Una particolarità è che questi memoriali non sono rivolti solo al passato, ma sono luoghi attualmente pulsanti, perché ogni anno vi vengono sepolti ulteriori resti umani, man mano che nuove tombe vengono scoperte in tutto il Rwanda. Tali siti non conservano e ricordano solo spoglie umane, ma sono luoghi in cui vengono presentate anche prove materiali della follia omicida: lance, machete, mazze e armi bianche; sono considerati dei “memorialidella resistenza”, ritenuti essenziali per evitare che orrori simili si ripetano in futuro.

Come disse Kofi Annan, l’allora Segretario Generale dell’ONU, “il genocidio in Rwanda è stato un fallimento della comunità internazionale. Non abbiamo fatto abbastanza per fermare l’uccisione di massa; dobbiamo imparare dai nostri errori e fare di meglio per proteggere le persone in futuro”. Se da un lato il genocidio non si dimentica perché è indelebile e continua a condizionare la vita dei sopravvissuti, la politica, le relazioni sociali, finanche quelle internazionali, dall’altro la domanda che si pone con sempre più insistenza negli ultimi tempi è su quanto tutta questa pacificazione interna sia solida e duratura, giusta e lungimirante.

Il presidente del Rwanda, il sessantaseienne Paul Kagame, è considerato l’eroe che ha fermato il genocidio e che, governando da tre decenni, ha realizzato un vero e proprio miracolo, quello del Paese africano con l’attuale tasso di crescita economica più alto e stabile, quello di un piccolo Stato nel cuore del continente che, sebbene un quarto di secolo fa fosse sprofondato all’inferno, oggi riesce a organizzare eventi sportivi di scala planetaria, come il congresso plenario della FIFA nel 2023 e i mondiali di ciclismo nel 2025, e a sponsorizzare squadre di calcio europee milionarie,come l’Arsenal, il Paris Saint-Germain e il Bayern Monaco.

Regime e distopia

Kagame è senza dubbio un presidente dal pugno di ferro e le sue percentuali ufficiali di “consenso” – praticamente plebiscitarie, secondo le elezioni più recenti – sono un segnale inquietante. Stando alla sua carriera politica e alle sue prospettive future, è un uomo che si pone come indispensabile per il suo Paese: ha legato la sua stessa esistenza a quella del Rwanda, ne è diventato il “salvatore” che ha arrestato il fiume di sangue, nonché il rifondatore della comunità dei sopravvissuti. Secondo gli standard occidentali, dovrebbe lasciare spazio ad una nuova classe dirigente, ad una nuova generazione, ma forse questo è il passo più difficile, addirittura impensabile per un uomo che vuole mostrarsi un condottiero, colui che ha compiuto il miracolo di risollevare il Rwanda e che ambisce a renderlo autonomo.

I sospetti e le accuse contro Kagame sono frequenti, come quelle emerse nel marzo 2021 attraverso il libro “Do Not Disturb: The Story of a Political Murder and an African Regime Gone Bad”, della giornalista britannica Michela Wrong, oppure quelle suscitate nel caso del rapimento, del processo e della condanna di Paul Rusesabagina, la cui biografia ha ispirato il film americano “Hotel Rwanda”, poi graziato nel marzo 2023. Nonostante tutto questo, i successi di Kagame sono reali: dopo trent’anni dall’inferno, il Rwanda è il secondo Paese in Africa per fare business, il più sicuro del continente in base alle statistiche ufficiali, il nono al mondo per esser donna, tra i primi cinque Stati a contribuire al peace-building attraverso missioni di pace, come quella in corso nella regione di Cabo Delgado, nel nord-est del Mozambico, dove dal 2017 è scoppiata una insurrezione jihadista.

L’attuale fronte più problematico del Rwanda, tuttavia, è quello con la Repubblica Democratica del Congo, il grande Paese confinante, le cui province orientali – Ituri, Nord Kivu e Sud Kivu – da decenni sono teatro di una guerra a bassa intensità che ha già causato milioni tra morti e profughi, periodicamente riaccesa con eccidi di massa, spesso su base etnica, sebbene le ragioni siano molto più profonde e intricate.

Da due anni, l’accusa congolese è che il governo rwandese sostenga finanziariamente e militarmente il gruppo ribelle armato “M23”. Kigali rigetta tali insinuazioni come calunnie, ma si trova sempre più isolata a livello internazionale, indicata da Stati Uniti, Francia e altre nazioni occidentali come stratega dietro le azioni dei guerriglieri tutsi nella RDC. Per questa ragione, i rapporti diplomatici tra i due Paesi sono sempre più logori e i rispettivi Capo di Stato, Félix Tshisekedi e Paul Kagame, si lanciano accuse a distanza sempre più irrimediabili ed esplicite.

La realtà sul campo è che nell’est congolese combattono decine di gruppi ribelli, sia tra loro, sia contro le FARDC, cioè l’esercito regolare: tra alleanze e strategie militari, si può legittimamente affermare che sono tutti contro tutti. Ultimamente, tuttavia, l’M23è riuscito a controllare ampie zone della provincia del Nord Kivu, al punto che le FARDC, i suoi alleati sul campo, più le forze internazionali della MONUSCO (i caschi blu dell’ONU) e quelle dell’EAC (Comunità degli Stati dell’Africa orientale), da poco sostituite da quelle della Comunità per lo sviluppo dell’Africa australe (SAMI RDC), non riescono a respingerli e sconfiggerli.

Miniere e armi

Di pari passo al deterioramento delle relazioni diplomatiche, i leader della regione dei Grandi Laghi e dell’Africa australe hanno avviato due negoziati di pace (o di de-escalation) a Nairobi (Kenya) e Luanda (Angola), al fine di evitare uno scontro diretto tra i due Paesi. Il primo tentativo a Nairobi riguarda un processo avviato in seno all’EAC (East African Community, Comunità dell’Africa orientale), mentre quello di Luanda nasce su iniziativa dell’Unione Africana, che nel 2022 ha incaricato il presidente angolano, João Lourenço, di fare da mediatore tra Tshisekedi e Kagame.

Da allora ci sono stati alti e bassi o, per essere più chiari, dei tira e molla, ma sostanzialmente le parti in causa si sono sempre dette d’accordo sui principi e gli obiettivi: disarmare i gruppi ribelli ed evitare una vera e propria guerra. Tuttavia, non si è mai andati oltre alcuni brevi cessate il fuoco, come quello unilaterale dell’M23 nell’aprile 2022, quello imposto del presidente angolano nel novembre 2022, o quello negoziato dagli Stati Uniti nel dicembre 2023. Altre volte, invece, si è sfiorato lo scontro diretto, quando nel gennaio 2023 un caccia congolese ha brevemente violato lo spazio aereo rwandese, venendo colpito da un razzo della contraerea di Kigali oppure in occasione di varie incursioni di militari congolesi nel territorio rwandese, come nel gennaio 2024.

La guerra nel Congo orientale riguarda tensioni etniche, malgoverno, dispute territoriali o di bestiame e interessi economici predatori, infatti le miniere della regione, ricche di oro, cobalto (fondamentale per la produzione di batterie per auto elettriche, smartphone e computer) e altri minerali preziosi, sono un fattore chiave che alimenta il conflitto: il controllo delle risorseè al centro dei combattimenti tra gruppi armati e milizie, dal momento che i relativi profitti permettono loro di armarsi e guadagnare potere “negoziale” con il governo. L’estrazione illegale e il contrabbando di minerali alimentano l’economia di guerra e arricchiscono i signori della guerra, con ulteriore sofferenza per le comunità che vivono nei pressi delle miniere, chespesso non vedono alcun beneficio dalla loro ricchezza, anzi, subiscono le conseguenze negative dell’inquinamento e dello sfruttamento.

L’M23 sostiene di difendere le comunità rwandophone congolesi, come gli hema nell’Ituri e i banyamulenge nel Nord e nel Sud del Kivu. Si tratta di gruppi tutsi, che il Rwanda considera in pericolo di genocidio, perché stigmatizzati dal potere di Kinshasa come “stranieri” e non “veri congolesi”, vittime di un linguaggio d’odio che attualmente si diffonde rapidamente attraverso i social-media.In effetti, questa narrazione xenofoba è fondata su un’idea semplicemente sbagliata e storicamente falsa, che ha indotto molta parte della popolazione congolese – in particolare gli altri gruppi dell’area, cioè Lendu, Babembe, Bafuliro, Banyindu e Bavira – a ritenere i rwandofoni come “invasori”, per cui chi ne contesta la legittima presenza afferma di “proteggere il proprio Paese dagli estranei”.

 

Passato e futuro

Al di là delle motivazioni e dell’impossibilità di verificare i dati in modo indipendente, i massacri sono reali e costanti, e finiscono per alimentarsi in una spirale di cui non si scorge mai il fondo. Nel 1994 il genocidio non fu una devastazione improvvisa, ma il risultato di un processo di anni, alimentato da parole ostili e razziste diffuse attraverso la radio: oggi, come allora, il genocidio non è mai un’esplosione immediata di odio, ma è un lungo processo che comincia a scuola, nei media, nella cultura, poi ulteriormente esasperato da una propaganda ossessiva, in cui Tshisekedi parla di “tendenze espansionistiche” del Rwanda e Kagame risponde che il suo omologo congolese “è capace di tutto, salvo di misurare le conseguenze di quel che dice”.

Nei 30 anni trascorsi dall’enormità del genocidio, ogni rwandese ha tentato innanzitutto di ricostruire le proprie geografie familiari, di ricucire lo squarcio tra generazioni e tra etnie, probabilmente senza riuscirci mai del tutto. In proporzione, lo stesso schema sembra riprodursi oggi nelle province orientali congolesi, in una dimensione internazionale che rende la situazione ulteriormente delicata. Gli sforzi per promuovere la pace e la coesistenza, la stabilità e lo sviluppo nell’area sono essenziali non solo per il benessere della popolazione, ma anche per il futuro dell’intera regione dei Grandi Laghi, un domani che, per poter essere pensato e realizzato, deve basarsi su un presente più equo e giusto.

 

 

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