vai al contenuto principale

L’attentato alla democrazia e la forza del premier che sta cambiando il Sudan

Ha voluto mostrarsi al suo popolo sorridente e seduto alla scrivania a lavorare dopo che, a poche ore da un attentato da cui è uscito illeso, aveva già rassicurato via Twitter di stare bene, anzi di essere in ottima forma.
“Siate certi che ciò che è accaduto oggi non ostacolerà la nostra transizione, ma rappresenta un’ulteriore spinta alla ruota del cambiamento in Sudan” ha fatto sapere il primo ministro del Sudan, Abdalla Hamdok, attraverso l’account ufficiale da premier. E i tanti sudanesi che credono in lui hanno risposto in massa ai suoi messaggi, chiedendogli di portare avanti le riforme intraprese dal suo governo. Un esecutivo che dall’agosto dello scorso anno, quando è stata ufficializzata la nomina dell’economista con profilo internazionale, sta portando avanti con determinazione la fase transitoria che si esaurirà con le elezioni previste nel 2022.
Hamdok ha avviato un piano di salvataggio economico della durata di 9 mesi, sostenuto da un prestito della Banca Mondiale di 2 miliardi di dollari che ne supporta il finanziamento.
Uno dei punti chiave del programma, presentato dal Ministero delle Finanze sudanese a inizio ottobre, prevede la cancellazione dei sussidi per il pane e il carburante, tra i fattori scatenanti delle proteste che avevano portato alla caduta dell’ex presidente Omar al-Bashir l’11 aprile del 2019.
L’autorevole primo ministro del Sudan, che per anni ha prestato servizio nella Commissione economica delle Nazioni Unite per il panel africano, ha deciso di sostituire gli aiuti di Stato su larga scala in trasferimenti di denaro diretti, rivolti alle famiglie più povere. Una decisione che ha suscitato malcontento in una larga fascia di popolazione.
Hamdok ha più volte sottolineato che la priorità del suo governo è quella di stabilizzare l’economia sudanese. Compito non facile.
Risollevare le sorti di un’economia in profonda crisi e con un debito spaventoso si è rivelata impresa ardua quasi quanto porre fine ai conflitti interni dopo mesi di contestazioni, senza ne precedenti, che hanno costretto alle dimissioni l’ex presidente Omar Hassan al Bashir, al potere da oltre 30 anni.
Il premier aveva nominato i membri del suo Gabinetto scegliendo tra una rosa di nomi avanzati dalle ‘Forze per la Libertà e il cambiamento’, la coalizione che ha raccolto le varie anime delle rivolte.
Tra i 49 profili proposti erano state individuate 14 figure indipendenti per ricoprire l’incarico di ministri in altrettanti dicasteri. Molti importanti ministeri sono stati affidati a esponenti della società civile, ma quelli strategici dell’Interno e della Difesa sono rimasti saldamente nelle mani dei militari.
Come la maggioranza del Consiglio Sovrano, l’organismo che affianca il governo nel processo di transizione, che vede ai vertici gli esponenti della Giunta di generali che aveva preso il potere nell’aprile del 2019.
Quando ci sono cambiamenti molto forti in un Paese grazie all’intervento dell’esercito, il controllo delle forze armate resta un punto cruciale.
La strada verso la democrazia in Sudan è stata finora un terreno minato su cui hanno giocato un ruolo anche forze islamiste che finora avevano ‘guidato’ il destino del Sudan.
Operare all’interno di un apparato statale con l’80% di funzionari nominati da Bashir, e modificare le cose, è stata da subito una partita difficile, parliamo di un Paese che dal 1989 è stato sotto il giogo di un dittatore che ha praticamente destrutturato lo Stato e ha animato ‘partite’ terribili, come quella del Darfur.
Non va inoltre sottovalutato l’elemento dell’influenza sul Consiglio sovrano, guidato dal generale Abdel Fattah al Burhan, di un personaggio come Mohamed Hamdan Dagalo, conosciuto come ‘Hemetti’, colui che ha gestito per anni le milizie paramilitari, le famigerate Forze di Supporto Rapido, prima ancora chiamate ‘janjaweed’, diavoli a cavallo.
Le stesse che sono state coinvolte in una sparatoria con le forze armate nei pressi del quartier generale nella capitale sudanese del Servizio nazionale di intelligence del Sudan quando si è diffusa la notizia che il primo ministro avesse deciso di scioglierle. Lo scambio a fuoco è avvenuto quando l’esercito ha tentato di disperdere i sit-in di protesta delle forze paramilitari che si opponevano al decreto presidenziale che le avrebbe disciolte. I primi a rivoltarsi contro il governo i membri dell’unità denominata “Apparato delle operazioni” della Direzione dell’intelligence, che contava circa 14.000 effettivi.
Si trattava, in pratica, del braccio armato delle forze di sicurezza sudanesi.
Non è da escludere, dunque, che dietro all’attentato di oggi a cui è scampato Hamdok ci sia proprio chi abbia mal digerito le disposizioni del suo governo.
Non sono mancati in questi primi sette mesi di transizione scontri tra il vecchio establishment e il primo ministro su vari argomenti, tra cui la possibilità di consegnare alla Corte Penale Internazionale l’ex dittatore Bashir.
Ma è la gestione economica del Paese il fulcro dei contrasti, i generali non vogliono perdere il controllo e i ‘proventi’ dell’apparato militare che finora ha gestito business e traffici con altri Paesi.
Dagalo, responsabile tra l’altro del brutale intervento per disperdere i manifestanti radunati davanti al quartier generale della Difesa a Khartoum il 3 giugno del 2019 con centinaia di vittime, continua a influenzare le milizie utilizzate dal Sudan in conflitti che coinvolgono storici alleati di Khartoum, dalla Libia allo Yemen.
Ultimo elemento, ma non per importanza, di cui bisogna tenere presente per capire cosa si agita all’ombra dei palazzi governativi di Khartoum, sono le inchieste volute dal premier in persona su riciclaggio, traffico di armi e altre attività illecite gestite da esponenti politici e delle forze armate.
Insomma, la lista di chi vuole morto il primo ministro sudanese è ben nutrita. Guardando a tutti gli ‘indizi’ sul tavolo, è facile prevedere che quello di oggi non resterà un ‘atto ostile’ isolato.

Torna su