(TUNISI). Prima della caduta fragorosa di Ben Ali e dell’onda della Primavera Araba ben pochi conoscevano dove si trovasse Sidi Bouzid, piccolo borgo agricolo incastonato tra le aspre montagne della dorsale tunisina del Djebel El Kbar, costantemente minacciato dalle piene degli oueds, i torrenti occasionali delle regioni semi-desertiche che trascinano fango e pietre a valle. La più grande ondata rivoluzionaria nel mondo arabo è però partita proprio da questo paesone di circa 100 mila anime, ribattezzato dopo la caduta di Ben Ali “Sidi Bouazizi” in onore di Mohamed Bouazizi, il giovane fruttivendolo che s’immolò con una tanica di benzina per protesta davanti alla prefettura.
Oggi, dieci anni dopo la fine di quella rivoluzione che ha comunque portato all’adozione di una costituzione, poco o nulla è cambiato. L’aveva detto in tempi non sospetti la blogger tunisina della rivoluzione Lina Ben Mhenni, oggi purtroppo scomparsa: “La maggior parte degli obiettivi per i quali siamo scesi in piazza non sono stati ancora raggiunti”. Ed oggi, al decimo anniversario della rivoluzione e al primo anno al potere del presidente Kaïs Saïed, la rabbia aumenta. Il governo, spaventato da questo vistoso anniversario, ha pensato erroneamente di decretare un lockdown mirato di 4 giorni per evitare celebrazioni. Non è stata una mossa molto intelligente. Anzi è stata vista come una provocazione che ha portato i giovani dei quartieri più difficili a scendere in piazza, a decretare scioperi e sit-in e a cercare di unirsi al movimento di protesta del 26 gennaio, nel giorno in cui l’Assemblea dei rappresentanti del popolo (ARP) ha discusso e votato la fiducia al rimpasto ministeriale proposto dal governo. Ma il tentativo di creare un movimento di massa omogeneo è fallito a causa non solo dei limiti organizzativi della protesta ma anche dalla decisione ufficiale di decretare off limits le piazze pubbliche e impedire ai manifestanti di recarvisi. La risposta del governo alle rivolte di metà gennaio ha pero’ ricordato le ore più buie della dittatura di Ben Ali: arresti, repressione, pesanti condanne. Ed è questo lo sfondo sociale e politico su cui si stagliano le rivolte di questi mesi.
Da dove viene questa rabbia? Per lo scrittore e ricercatore Slimane Zeghidour viene innanzitutto dalla frustrazione nata da un certo “lirismo della rivoluzione”. “Per molti giovani, la rivoluzione era un fine in sé che doveva meccanicamente portare prosperità e giustizia”. Non è stato così’. Oggi le generazioni di tunisini vivono un periodo di crisi globale, politica e sociale con lo sfondo di una pandemia che ha provocato anche una crisi economica senza precedenti. Tra marzo e giugno 2020 sono 165.000 i posti di lavoro persi secondo le stime delle associazioni d’impresa tunisine ed il 40% delle aziende nel settore dell’artigianato è stata costretta a chiudere i battenti. Come diretta conseguenza, la disoccupazione è balzata di 3 punti al 18%, e il peggio probabilmente deve ancora venire. Una situazione che ha provocato un malcontento generalizzato ma soprattutto una rabbia nelle periferie più povere.
Lo spiega la caricaturista Nadia Khiari, autrice del famoso gatto Willis from Tunis che simbolizzo’ anche la fuga di Ben Ali dal paese. “Ci sono stati molti progressi dalla rivoluzione, ad esempio la libertà di espressione, nuove leggi ma nella vita quotidiana c’è stata un’esplosione allucinante dei prezzi, speculazioni, prodotti che costano il doppio. Dall’inizio della crisi sanitaria, le tasse ci soffocano. Sono un professore universitario part-time, e finanziariamente è molto difficile ma immagino coloro che vivono in aree povere che sono state completamente trascurate negli ultimi dieci anni. È normale che i giovani scendano in strada”.
La nuova generazione che scende in piazza ha in comune con quella della caduta di Ben Ali il rifiuto del sistema ma soprattutto il rifiuto della miseria e della corruzione perché li priva del diritto di vivere e godere della propria libertà. Il nuovo slogan è: “il sistema è corrotto dal potere e dal governo” (“fâsda el mandhouma bel h’akem wel h’kouma”). La generazione di Ben Ali si distingueva per un chiaro desiderio di rompere con il passato, veicolato dallo slogan fondamentale “il popolo vuole la caduta dell’ordine” (“nidham”) e fu coadiuvato dal ruolo trainante del sindacato Unione Generale dei Lavoratori Tunisini (UGTT) che all’epoca decretò uno sciopero generale che fu seguito su scala nazionale. I giovani tunisini che oggi scendono in piazza invece, sembrano disillusi, amano definirsi “una generazione sbagliata”. Il loro messaggio alla nuova classe politica si condensa nello slogan: “La generazione sbagliata contro la corruzione diffusa”. La contraddizione tra le aspirazioni libertarie dei giovani e le esigenze conservatrici di un potere esercitato dagli islamisti di Ennahdha alleati ai populisti di Qalb Tounes e agli estremisti di Itilâf el Karâma, in un contesto di crisi globale è palese ed ha scatenato le rivolte violente degli ultimi tre mesi.
Oggi pero’ i giovani tunisini hanno un’arma in più rispetto a quelli della generazione della caduta di Ben Ali: il laicismo e persino l’ateismo che 10 anni fa era inesistente mentre oggi ha un ruolo sempre più preponderante nel dibattito civile. Un importante studio condotto nel 2018 e 2019 dall’Arab Barometer, una rete di ricerca accademica con sede negli Stati Uniti, ha rilevato che la percentuale di non credenti nella regione è di circa il 13%, contro l’8% del 2013, una cifra che giunge fino al 18% nei giovani di meno 30 anni. Condotto su 25.000 persone in dieci paesi del mondo arabo, questo sondaggio mostra che la porzione di popolazione che si presenta come non religiosa supera addirittura il 45% tra i 18-29enni in Tunisia. Questa sarebbe una conseguenza della Costituzione del 2014. La Costituzione del 2014 garantisce infatti la libertà di coscienza e avrebbe favorito l’emergere della libertà di religione. Un segno di progresso democratico, secondo Abderrazak Sayadi, professore di religione e civiltà comparata:
“Vedo qui una maturità democratica. I giovani d’oggi osano sfidare il tabù religioso e dire “beh no, non sono religioso, non pratico”, o “sono ateo”. Inoltre, siamo l’unico paese del mondo arabo ad autorizzare un’associazione che milita chiaramente per l’ateismo. Questo non esiste in altri paesi musulmani. »
“La Tunisia è il paese più laico del mondo arabo – sottolinea Michael Robbins, direttore dell’Arab Barometer – e ciò è legato alla storia di questo paese, più aperto dal punto di vista religioso, ma anche al rifiuto da parte della popolazione dell’estremismo e dell’Islam politico”.
Ex protettorato francese, il più piccolo paese del Maghreb ha ottenuto la sua indipendenza nel 1956, prima di subire una secolarizzazione forzata sotto la guida del presidente Habib Bourguiba. Il padre del modello di stato tunisino è in particolare all’origine del Codice che nel 1957 ha concesso alle donne diritti senza precedenti nel mondo arabo (voto, matrimonio consensuale, divorzio davanti al giudice, divieto di poligamia). Il suo successore, Zine el-Abidine Ben Ali ha pian piano riabilitato il posto dell’Islam nella società (educazione religiosa, chiamata pubblica alla preghiera) per avere un consenso più largo al suo potere indiviso. Così facendo, ha creato un humus prolifico ai movimenti islamisti, in particolare al partito Ennahda, i cui membri sono stati in passato imprigionati o costretti all’esilio. Non è infatti un caso che siano stati spinti al potere dalla primavera tunisina come la forza di rinnovamento meglio organizzata. Ma gli anni successivi sono stati segnati da numerosi attacchi jihadisti che hanno trascinato la Tunisia nel sangue. E l’elettorato degli islamisti – 1,4 milioni di voti nel 2011 – s’è pian piano evaporato. Nelle elezioni legislative dell’ottobre 2019, Ennahda, principale partito politico del paese, ha raccolto solo 500.000 voti.
“Siamo in un momento politico in cui l’opposizione all’Islam politico porta voti e diventa l’unico discorso udibile – spiega Hassen Zergouni di Sigma Conseil (ufficio di ricerca e statistiche leader in Tunisia e Algeria) – alle elezioni presidenziali, il popolo ha votato in massa Kaïs Saïed in opposizione a Rached Ghannouchi, presidente dell’Assemblea dei rappresentanti del popolo (ARP). D’altra parte, nelle elezioni legislative, molti optano per il Partito Libero Destouriano (PDL) che ricorda il voto utile del 2014”.
Un esempio di questo voltare le spalle all’Islam politico delle nuove generazioni è quello di Emna Charki, blogger tunisina di 27 anni, condannata a sei mesi di prigione e multata con un’ammenda di 2.000 dinari (615 euro) per aver condiviso su Facebook una semplice poesia che parodiava il Corano. Attraverso di lei in realtà sono tutti gli atei e i liberi pensatori tunisini sad essere stati presi di mira dall’Islam politico. È una delle poche persone in Tunisia infatti ad affermare ufficialmente di essere atea. Così’, la polizia postale incaricata di sorvegliare il web si è imbattuta nella sua parodia e l’ha segnalata al procuratore, considerandola “pericolosa per la sicurezza nazionale”, come ha spiegato l’avvocato della blogger, Youssef Lahmar. Emna Charki è stata condannata a sei mesi di prigione in base all’articolo 6 della Costituzione che afferma che lo Stato “garantisce la libertà di credo e di coscienza” impegnandosi a “proteggere il sacro”. Ma Emna continua a ricevere minacce di morte ogni giorno sui social network ed è stata per questo motivo costretta a scegliere l’esilio in Europa.
“Non ho un futuro in Tunisia – spiega in un’intervista a France Culture – siamo in un paese corrotto, dove non c’è libertà di espressione. Non abbiamo fatto una rivoluzione. Se faccio appello, mi metteranno comunque in prigione. Ho capito che dovevo lasciare il mio paese. Ho fatto il visto e sono partita per l’Europa. Vivo in clandestinità. Se metto di nuovo piede in Tunisia, vado dritta in prigione. Ma non ho intenzione di rinunciare ai miei principi, continuerò a dare la mia opinione e a lottare per la libertà di espressione”. Prima dell’approvazione della costituzione c’erano state altre condanne eclatanti tra cui quella di Jabeur Mejri, condannato nel 2012 a sette anni e mezzo di prigione per aver pubblicato su Internet testi e disegni considerati offensivi per l’Islam. Condannato per disturbo dell’ordine pubblico, è stato graziato nel 2014.
Un altro caso è quello della giurista Rahma Essid, segretaria generale dell’Associazione dei Liberi Pensatori (ALP). Insignita di un premio per il suo coraggio nel corso delle Giornate dell’Ateismo di Varsavia nel 2018, oggi è minacciata dagli islamisti. Essid ha tre cicatrici sulla sua gamba. “Sono i colpi di manganello dei salafiti” spiega. L’avvocato 30enne, che si definisce “atea per nascita” – suo padre era comunista – è stata presa a manganellate mentre partecipava a una manifestazione per la libertà di coscienza a Tunisi. Ma questo non ha smussato la sua determinazione. È una delle poche atee in Tunisia ad accettare che il suo essere atea sia di dominio pubblico. “Essere discreti non aiuta la nostra causa – spiega – siamo una minoranza discriminata e dimenticata, nessuno parla di noi. Ma coloro che osano farlo in pubblico rischiano di venire esclusi dalle proprie famiglie e di essere costretti a vivere per strada”. Rahma oggi si batte per difendere “la laicità dello stato tunisino”. “Anche se il Codice di Bourguiba è già in sé rivoluzionario – spiega – ci sono troppe leggi retrograde in Tunisia”.
A forza pero’ di fare campagne, a forza di arresti e denunce gli atei tunisini sono riusciti nondimeno a vincere un’importante battaglia: il diritto di mangiare e bere liberamente durante il Ramadan. Alcuni bar possono addirittura servire l’alcool. A spiegarlo è Habib Souissi, gestore di un bar a Sousse, il Roll’s, che è diventato in breve il quartier generale della comunità atea della città ma anche di quella LGBT. “Gli atei hanno spezzato il tabù sull’Islam – spiega – per la prima volta nella storia sta perdendo tutta la sua sacralità diventando una religione che puo’ essere accettata o meno e criticata liberamente”. Sui muri del suo bar, Souissi ha appeso addirittura ritratti di atei famosi come Freud, Sartre, Carl Sagan o Stephen Hawking. La battaglia è ancora lunga ma forse questa nuova generazione di tunisini, più conscia e coraggiosa grazie a quella che è scesa in piazza contro Ben Ali, riuscirà a raggiungere quegli obiettivi di cui parlava Lina ben Mhenni e a proiettare la Tunisia verso un futuro migliore per le prossime generazioni.