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Musei etnografici di epoca coloniale: una conferenza in Germania sulla necessità della restituzione e della cooperazione

Ieri, 6 dicembre 2023, a Colonia, in Germania, si è tenuto un interessante incontro tra Bénédicte Savoy e Ciraj Rassool al museo etnografico della città, il Rautenstrauch-Joest Museum, nell’ambito del ciclo “Cologne Crossroads Conversation”, sullo stato del dibattito relativo alla restituzione dei beni culturali (e non solo) conservati nei musei europei, raccolti durante il periodo coloniale presso luoghi e comunità del Global South.

Bénédicte Savoy è professoressa di Storia dell’Arte all’università di Berlino e da anni è impegnata sul tema della restituzione verso l’Africa, in particolare in Camerun (quest’anno ha pubblicato il libro “Atlas of Absence. Cameroon’s Cultural Heritage in Germany”, insieme ad Albert Guaffo a altri). Ciraj Rassool, dal canto suo, è professore di Studi sul Patrimonio all’università di Western Cape, in Sudafrica, nonché consulente di numerosi musei e istituzioni culturali internazionali (importante è il suo libro del 2017 “Unsettled History: Making South African Public Pasts”). Si tratta di due tra i più importanti esponenti del dibattito internazionale sulla restituzione, che ieri hanno ripercorso soprattutto gli ultimi cinque anni (2018-2023) in cui si è maggiormente discusso sulla “nuova etica relazionale” promessa dalle società del Global North verso quelle del Global South, a partire da un discorso del novembre del 2017 tenuto dal presidente francese Emmanuel Macron in Burkina Faso, che annunciava la restituzione di alcuni manufatti, poi avvenuta un anno dopo.

Insieme a Nanette Snoep, direttrice del museo di Colonia, e a Martin Zillinger, professore di Antropologia culturale all’università cittadina, è stato animato un interessante dialogo che, a livello internazionale, è in realtà cominciato già oltre 100 anni fa, quando le popolazioni e le comunità del Global South hanno cominciato la battaglia per la restituzione dei beni culturali e identitari presi (cioè: saccheggiati, razziati…) dagli imperi coloniali europei.

Come ha evidenziato Ciraj Rassool, il tema però non è semplicemente di “restituire” e di “rimpatriare” tali oggetti. D’altra parte, la questione è piuttosto complessa: restituire a chi? rimpatriare dove? Il punto, piuttosto, è ragionare su aspetti molto più profondi, che coinvolgono uno sforzo a impegnarsi collettivamente sull’ingiustizia coloniale e a ripensare le collezioni etnografiche dei musei; significa cioè rendere plurale la conoscenza e la memoria, nonché combattere contro il razzismo.

Come ha esemplificato chiaramente Rassool, c’è un enorme tema intorno alla restituzione dei resti umani prelevati dagli studiosi europei dell’Ottocento e del primo Novecento che sono stati progressivamente “oggettificati”, mentre invece si tratta di resti di persone, di memorie, di antenati.

È il caso storico, per stare all’esempio portato da Rassool, dell’antropologo austriaco Rudolph Pöch, che all’inizio del XX secolo dissotterrò con la sua equipe in una fattoria vicino a Mopedi, nella regione di Kuruman, in Sudafrica, i cadaveri di Trooi e Klaas Pienaar, due contadini morti poco prima di febbre malarica. A quei cadaveri furono spezzate le ginocchia per farli entrare in un barile pieno di sale e posti su un carro trainato da buoi e poi inviati in Austria. Decenni dopo, il Museo di Storia Naturale di Vienna scoprì che nella sua collezione c’erano resti di bambini ebrei e decise di voler restituirli. Ciò mise in moto un processo di restituzione dei resti umani, come quelli di Klaas e Trooi Pienaar, che facevano parte di un’intera collezione di resti dell’Africa meridionale e per molto tempo furono assemblati esposti come documenti o addirittura come cultura materiale. Questo esempio mostra come la “restituzione“ non possa limitarsi e ridursi a una faccenda burocratica, perché in realtà solleva una discussione diversa da quella sulla restituzione delle opere d’arte e della cultura materiale. Oggi, ha proseguito Rassool, anche volendo considerare la collezione in Europa di oggetti e opere d’arte originari di ex-colonie come una forma di cura, dove non c’è più un collezionismo e una musealizzazione violenti, non si può restare indifferenti dinnanzi alla conservazione dei resti umani che fu una pratica crudele, dacché la loro restituzione deve essere urgentemente sostenuta.

A questo punto, però, emerge una nuova difficoltà: come si effettua questa restituzione? Qui, ha spiegato Rassool, il processo passa agli africani: “non esiste alcun modello e non possiamo affidarci solo ai biologi o agli anatomopatologi, perché per questi scienziati quei resti sono diventati oggetti. Noi, invece, li dobbiamo “riumanizzare”, per noi questa è la politica volta a invertire la disumanizzazione della vita. E invertire la disumanizzazione del museo. La disumanizzazione degli esseri trasformati in oggetti seriali, in oggetti razziali”. Rassool fa riferimento alla necessità che le restituzioni siano accompagnate da cerimonie culturali, perché quei resti devono essere restituiti nelle bare.

Sembra facile, ma non lo è, anzi spesso è impossibile, perché la legislazione europea non lo consente. Tuttavia, nel caso di Klaas e Trooi Pienaar i politici austriaci ed i diplomatici sono stati in grado di accordarsi, per cui quei resti sono stati poi effettivamente restituiti, con una serie di toccanti cerimonie in Sudafrica, realizzate a partire da frammenti di memoria collettiva tra le comunità locali, in cui le persone ricordavano ancora Troi Pienaar, addirittura prima di sposare Klaas Pienaar: ricordavano, ad esempio, che, molto probabilmente, erano stati costretti a fuggire dal genocidio nel sud della Namibia e che erano passati in Sudafrica, dove erano diventati braccianti agricoli.

Così, il guaritore Petrus Vaalboi, coinvolto nei negoziati con l’UNESCO, ha celebrato la prima cerimonia nel salone dell’Accademia austriaca delle scienze, spiegando a tutti i membri della delegazione cosa era venuto a fare. Per poi effettuarne una seconda in Sudafrica, al rientro dei corpi.

La restituzione è un processo di cui si occupano i governi e gli Stati, e deve essere finanziato e seguire certe procedure, ma il caso della restituzione degli antenati non può essere ridotto alla riconsegna di resti rappresentanti un certo tipo di storia, perché quel che resta di quei corpi è parte di individui che furono, con storie che hanno un significato più profondo: si deve trovare un modo di commemorare che lenisca e guarisca, ma che al tempo stesso mantenga la violenza della storia e continui a mostrarla, perché non la si dimentichi e non la si debba subire nuovamente.

Nel confronto di chiusura, dopo le relazioni dei due oratori principali, tutti i presenti hanno convenuto che bisogna insistere su un processo di restituzione collettiva: degli antenati, delle loro opere d’arte e dei loro oggetti, nonché della documentazione prodotta all’epoca. In altre parole, deve trattarsi di una restituzione su vasta scala che potrà dirsi completa solo se realizzata in cooperazione e accompagnata da un lavoro riparatore. Evidentemente, questo non avverrà dall’oggi al domani, ma è un impegno che, ha concluso Rassool, ci riguarderà per almeno un’altra generazione.

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