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Sudan, due anni fa la ‘rivolta del pane’ che portò alla caduta del regime di Bashir

Sono spuntate una dietro l’altra lungo le sponde del Nilo Bianco, le cui acque calme scorrono fino alla confluenza nel Nilo Azzurro. Steli piccole a ricordo delle decine di “martiri della rivoluzione”, così come i sudanesi chiamano le vittime delle rivolte iniziate il 19 dicembre del 2018 e che portarono alla caduta del presidente Omar Hassan al Bashir l’11 aprile dell’anno successivo.

Un mausoleo che si estende di giorno in giorno  lungo la riva del grande fiume che attraversa Khartoum, la capitale del Sudan, dove scenderanno in strada in migliaia per celebrare quei giorni.

Ma le restrizioni per gli assembramenti disposti dal governo potrebbero impedire la celebrazione.

La polizia già nei giorni scorsi ha sparato gas lacrimogeni per disperdere un corteo di protesta contro la cancellazione dei sussidi per il carburante e ha bloccato le strade principali che conducono al quartier generale militare e al palazzo presidenziale.

“Siamo stati costretti a far intervenire le forze dell’ordine per il rischio di contagio, qui in Sudan siamo ancora in emergenza Covid-19 – ha spiegato il ministro degli Affari Esecutivi, Omar Manis – le dimostrazioni causano un’estrema congestione del traffico che ha costretto le persone a camminare per lunghe distanze. Siamo consapevoli che il 19 dicembre, come il 6 aprile e  l’11 siano state date cruciali per la rivoluzione ma non possiamo permettere che si creino assembramenti”. Anche la Sudanese Professional Association (SPA), che più di chiunque altro avrebbe motivo di celebrare quei giorni, ha chiesto ai propri sostenitori di rimanere a casa e di non prendere alla leggera la diffusione della pandemia globale di coronavirus nel Paese.

Il Sudan è stato tra i primi stati africani ad assumere misure stringenti per cercare di contenere la diffusione del virus. Ha sospeso il rilascio di visti a cittadini di paesi considerati tra i principali hotspot del Covid-19 dall’Organizzazione mondiale della sanità e ha consigliato ai sudanesi di non viaggiare se non in caso di forza maggiore.

Oltre alla sfida Coronavirus il Sudan si trova davanti a una serie di incognite e di nodi ancora irrisolti che rendono assai fragile la transizione avviata nel paese.

Solo pochi giorni fa è circolata la notizia – poi smentita dall’esercito – di un presunto tentativo di colpo di stato da parte di alcuni ufficiali che sarebbero stati arrestati prima che potessero agire.

“Come ha dichiarato il portavoce delle forze armate sudanesi la situazione nel paese è stabile – assicura Manis – ma è evidente che l’allerta sia massima dopo il fallito attentato al primo ministro Hamdok” aggiunge alla fine con malcelata preoccupazione.

Il tentativo di eliminare il premier sudanese lo scorso 9 marzo è stato da subito considerato un attacco al processo di democratizzazione in atto nel Paese. Analisti è osservatori internazionali hanno puntato il dito contro l’establishment militare che in parte è rappresentato da generali che erano già in servizio durante il governo di Bashir ma la rivendicazione da parte di un gruppo islamico, i Fratelli musulmani sudanesi (chiamati anche ‘talebani’ del Sudan), farebbe pensare a un attacco terroristico più che politico.

Ma in Sudan nulla è mai come sembra.

Soprattutto se si considera che ai vertici del Consiglio sovrano, l’organismo composto da militari (5 generali e un civile da loro indicato) e cinque esponenti delle Forze del cambiamento e delle libertà (cartello composto dalle varie anime delle proteste contro Bashir), è saldamente insediato il capo della Giunta subentrata all’ex dittatore, Abdel-Fattah al Burhan, e l’eminenza grigia del potere militare sudanese, il generale Mohamed Hamdan Dagalo, conosciuto con il soprannome ‘Hemeti’, principale responsabile dell’attacco del 3 giugno al sit-in davanti al ministero della Difesa. Oltre un centinaio tra giovani, donne e bambini furono falcidiati dalle milizie da lui guidate.

Un passato da venditore di cammelli, quattro mogli e innumerevoli figli, l’uomo forte del Sudan sembra avere ancora un gran potere.

Una carriera in ascesa quella di Dagalo nell’esercito, proprio grazie alle repressioni perpetrate dalle Rapid support force in Darfur, la regione occidentale sudanese con pulsioni indipendentiste e spina nel fianco di Bashir.

Guardando e analizzando la situazione, la domanda sorge spontanea: alla fine della transizione, su cui è intervenuto l’accordo di Juba dello scorso 3 ottobre che ha sancito la pace tra governo e gruppi ribelli, i militari saranno davvero disposti a lasciare il passo ai civili?

Per chi conosce il passato del Sudan e i personaggi che hanno in mano il destino del Paese, il dubbio che senza un appoggio concreto della comunità internazionale il percorso democratico possa deragliare  è pressoché certezza.

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