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Sudan, dall’orrore della guerra all’inferno dei campi profughi

La storia di Suliman Ahmed Hamid, attivista per i diritti civili, fixer sudanese e collaboratore della nostra rivista, nonché amico di lunga data della nostra direttrice, Antonella Napoli,  è la triste rievocazione di ciò che purtroppo è accaduto e accade a migliaia di civili in fuga dai combattimenti e dalle violenze del conflitto che dal mese di Aprile sta devastando il paese.

Le notizie arrivano frammentarie, anche se ciò che viene detto è piuttosto preciso e contestualizzato. La posizione di Suliman, il suo stato di salute, le cause della sua fuga. Notizie corroborate da fatti e da una conoscenza del territorio che ci vengono riportate dal campo.

Suliman è fuggito da Khartoum, insieme a centinaia di migliaia di suoi connazionali. Fino a quando hanno potuto, Suliman ed i suoi 21 familiari hanno resistito, seppur tra mille difficoltà; la chiusura dei mercati, la mancanza di cibo e materie prime, la guerra che si avvicinava alle abitazioni e si intensificava ogni giorno di più, l’impossibilità di muoversi liberamente, hanno messo a dura prova la profonda resilienza della famiglia.

Ma la partenza è inevitabile. Non la notizia delle atrocità commesse dalle Forze di supporto rapido nei confronti della popolazione civile trattengono la famiglia in fuga, nemmeno quella trapelata dell’uccisione di due famigliari e di un amico di famiglia sulla soglia di casa. I combattimenti si fanno aspri, il rischio è quello di rimanere imbottigliati tra le parti in una città che ormai è divenuta un campo di battaglia senza alcuna distinzione tra obiettivi civili ed obiettivi militari.

Soprattutto i giovani fuggono dalla capitale alla volta di Port Sudan, dove tentano di entrare in Egitto via Port Said alla ricerca di un riparo e in fuga dagli arruolamenti forzati a cui le RSF sottopongono le fasce più giovani della popolazione.

Dal sud però le notizie che giungono non sono affatto rassicuranti. Sebbene Suliman, la moglie ed un nipote abbiano trovato riparo presso un famigliare, ad un certo punto le comunicazioni si interrompono, facendo pensare al peggio.

Le notizie che giungono dal Darfur ci parlano di uccisioni di massa, di stupri e rappresaglie contro la popolazione in fuga. Le RSF prendono di mira le popolazioni di pelle nera, in particolare quelle di etnia Masalit.

Pulizia etnica nel Darfur. Ad El Geneina migliaia di corpi sulle strade

Migliaia di civili vengono uccisi in strada, sequestrati; le donne prese di mira e violentate mentre cercavano di raggiungere a piedi il confine con il Chad – dove sono già presenti oltre 270000 rifugiati sudanesi – proprio per sfuggire alle violenze ed ai combattimenti.

Suliman ricompare due mesi dopo. Si rifà vivo attraverso dei messaggi: è arrivato in Etiopia ed attualmente è all’interno di un campo profughi, uno dei tanti di cui è disseminata la regione.

La situazione all’interno del campo è ben oltre il limite dell’immaginabile. In migliaia sono costretti ad una convivenza forzata, con tutte le conseguenze del caso. Da poco nel campo è scoppiata un’epidemia di colera, dovuta alle pessime condizioni sanitarie, sono centinaia gli ammalati.

Nel campo avvengono aggressioni e miliziani armati girano al suo interno, rapendo giovani e aggredendo anche con le armi i profughi: “Alcuni giorni fa un uomo di origine eritrea è stato aggredito, vicino la tenda di Suleyman” – ci dice la fonte. “Degli uomini armati gli hanno chiesto il telefono ed al suo rifiuto lo hanno colpito con violenza. Non è intervenuto nessuno, nemmeno una guardia del campo che era poco distante e che ha assistito alla scena”.

Ciò che manca però è il cibo. Suleyman riferisce che più volte, per giorni interi non si è vista l’ombra di cibo all’interno dei campi. Accusa coloro che gestiscono gli aiuti alimentari di aver messo in piedi una vera e propria “mafia” degli aiuti, spese di coloro che ne hanno veramente bisogno.

Suleyman si ammala, ha problemi alla prostata. Viene portato più volte presso l’Ospedale di Gondar da uomini dell’Unhcr per ricevere le cure del caso, si prospetta anche un intervento presso un ospedale di Addis Abeba.

Intorno al venti di Novembre, durante uno dei viaggi verso l’Ospedale di Gondar, l’ambulanza sulla quale viaggia Suleyman viene fermata da 4 uomini armati, appartenenti alle milizie Fano. Suleyman e gli altri compagni di viaggio vengono portati in mezzo alla boscaglia, spogliati di ogni avere, compreso il telefono, sul quale aveva tutti i contatti utili.

Due ragazzi, giovanissimi, anch’essi arrivati dal Sudan, non avevano un soldo, nemmeno il telefono. Gli uomini delle Fano allora hanno detto che potevano essere uccisi “. Ma il caso ha voluto che con lui vi fosse una donna eritrea, in possesso di una discreta somma di denaro. I soldi erano il frutto di anni di contributi delle nazioni unite come rifugiata politica.

Dovevano servire alla donna per acquistare dei biglietti aerei per Addis Abeba per sé e per la propria famiglia. Quel denaro, sottratto dalla milizia alla donna, ha significato la differenza tra la morte certa e la salvezza. Con quel denaro gli uomini armati hanno preso il largo, un bottino di non poco conto.

Di ritorno sulla strada hanno ritrovato l’ambulanza e l’autista, che nel frattempo aveva allertato i soldati federali, raccontando l’accaduto e portandoli sul posto.

Il denaro, il motore di tante vite, il discrimine tra vita e morte.

Parlare di Suliman significa parlare di centinaia di migliaia di rifugiati nel continente. Gente in fuga dal baratro della guerra, esseri umani sradicati letteralmente dalle loro case e dai loro paesi, in balia degli eventi e del tempo.

Persone di ogni genere, come lo è qualsiasi società, istruiti o meno, ricchi o poveri, di un’etnia o dell’altra, alle prese con qualcosa più grande di loro dalla quale fuggono il più lontano possibile, per dare a sé stessi o ai propri figli un futuro degno di essere chiamato tale.

Siamo abituati a “dare i numeri” quando parliamo di rifugiati o delle vittime di un conflitto. I numeri africani poi, ci rendono la cosa ancor più facile: perché sono numeri lontani e perché sono numeri giganteschi, inafferrabili dalla nostra mente. Avere a che fare con una, tre, cinque persone è un conto, averne a che fare con un milione (ripetiamolo a mente, un milione) è ben altra.

Ma in quei numeri, nei milioni, nelle centinaia di migliaia, vi sono milioni di Suleyman, centinaia di migliaia di Suleyman: non è un’astrazione, sono carne ed ossa, sono sangue, sudore e fame.

Ricordiamocelo, ricordiamolo al mondo, a quello che conta delle agenzie Onu e delle cancellerie internazionali, al nostro, forse più piccolo, sicuramente però, quello da cui iniziare.

Nella foto di copertina Suliman Ahmed Hamid e Antonella Napoli 

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