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Ruanda. La storia segreta dell’Olocausto Africano: la rivoluzione etnica Hutu del 1959

La rivoluzione contadina Hutu (Muyaga in lingua Kinyarwanda) è avvenuta a cavallo dell’indipendenza: tra il 1959 e il 1961. Una rivoluzione tutt’altro che spontanea o nazionalista e, di certo, non a favore delle masse contadine povere hutu che pretendeva di rappresentare. Fu una manovra eversiva architettata dall’élite politica hutu (formata dalla Chiesa Cattolica) appoggiata dal Belgio e dal clero cattolico fiammingo per controllare il processo di indipendenza del Ruanda, garantendosi il passaggio dal sistema monarchico a una repubblica “indipendente” etnicamente egemonizzata dagli Hutu che avrebbero meglio assicurato il controllo occidentale post indipendenza.
La Chiesa Cattolica si mosse nel 1945 a preparare il terreno di questa “rivoluzione” istruendo l’élite Hutu destinata a sostituire la monarchia e l’élite tutsi che il colonialismo belga aveva utilizzato per garantire l’amministrazione della colonia africana. Nel 1958 la leadership Tutsi si era orientata verso una rapida indipendenza dal Belgio mentre quella hutu – cattolica per un semplice trasferimento di poteri su base etnica e una indipendenza progressiva. Una posizione immediatamente sostenuta dalla Chiesa Cattolica e dal governo coloniale belga.
Il Belgio aveva ricevuto dalle Nazioni Unite dopo la seconda guerra mondiale, il mandato di supervisionare l’indipendenza del Ruanda. L’economia ruandese era al suo massimo splendore. Il tenore di vita era notevolmente cresciuto anche grazie al sostegno economico ricevuto dai lavoratori immigrati in Katanga, Congo, per lavoare nelle miniere e in Uganda per lavorare nelle piantagioni di caffè e canna da zucchero. Nel paese si stava formando una classe borghese sia Tutsi che Hutu anche se quest’ultimi rappresentavano ancora una minoranza tra le classi agiate.
All’interno della Chiesa Cattolica era in atto un cambiamento radicale dei vertici ecclesiastici operanti in Ruanda. Il clero belga che proveniva dal settore imprenditoriale e conservatore della Madre Patria (come il Vicario Apostolico del Ruanda: Léon-Paul Classe) venne progressivamente sostituito da un clero più giovane proveniente dalla classe operaia belga. La maggioranza di questo nuovo clero era di origine fiamminga e aperto sostenitore del dominio etnico del HutuPower.
Questa nuova composizione del clero cattolico si concentrò a formare un élite culturale e politica Hutu su basi etniche ed estremistiche. I leader hutu formati dalla Chiesa Cattolica nel 1957 firmarono il famoso “Manifesto Bahutu” che rivendicava l’istaurazione di un dominio etnico camuffato da atto “democratico” da parte della maggioranza Hutu “schiavizzata” dalla minoranza Tutsi.
La figura più emergente della nuova elite Hutu fu Grégoire Kayibanda che diventerà il primo Presidente dopo l’indipendenza. Kayibanda era stato formato presso il Seminario di Nyakibanda e indirizzato verso il sacerdozio. Avendo notato la sua particolare intelligenza il clero fiammingo lo orientò verso la carriera politica.
Nel 1952 Kayibanda, all’età di 28 anni, diventa redattore della rivista cattolica AMI, sostituendo Alexis Kagame. La popolare rivista cattolica, sotto la direzione di Kayibanda si trasformerà in un efficace organo di propaganda politica dell’ideologia razziale HutuPower. AMI sarà successivamente affiancata da una seconda rivista cattolica ancora più estremista: Kinyamateka, fondata da uno sconosciuto movimento intellettuale hutu: il MSM Mouvement Social Muhutu, creato da Kayibanda che assunse il ruolo di direttore della neonata rivista.
La seconda figura principale dell’élite Hutu creata dalla Chiesa Cattolica era Joseph Gitera, un altro ex seminarista che fondò la APROSOMA (Associazione per la Promozione Sociale del Partito della Masse). Gitera promuoveva una politica meno estremista di Kayibanda, puntando sul superamento della monarchia e l’emancipazione dei poveri piuttosto che sulla divisione Hutu-Tutsi.
Deterioramento delle relazioni Hutu-Tutsi all’interno della Chiesa Cattolica e della società ruandese.
A partire dal 1952 il clero belga crea una situazione paradossale all’interno della Chiesa Cattolica che ben presto si rifletterà sulla società ruandese con effetti devastanti. All’interno del clero e della intellighenzia cattolica ruandese agivano entrambe le élite create dalla Chiesa Cattolica: quella Tutsi (creata durante il primo periodo coloniale) e quella Hutu, di recente formazione.
Le relazioni tra queste due correnti etniche si deteriorano nel 1956 con la pubblicazione di un parroco hutu ruandese di un saggio di revisionismo storico che prendeva in esame il periodo pre-coloniale e coloniale, attribuendo ai Tutsi crimini mai avvenuti ed amplificando soprusi socio economici compiuti ai danni degli Hutu.
Il saggio, pur essendo evidente che si trattava di un’opera revisionista e complottista, venne indirettamente accreditato dalla Chiesa Cattolica che, con massima discrezione, promosse la sua pubblicazione sul quotidiano filo cattolico congolese “La Presse Africaine”. Il saggio denunciava (senza presentare prove credibili) anche un tentativo del Re in carica: Mutara III Rudahigwa e dell’elite Tutsi di creare una dittatura etnica appena ottenuta l’indipendenza dal Belgio. Il saggio pubblicato rappresenterà la base di revisionismo storico contenuta nel Manifesto Bahutu redatto a Goma e Bukavu (est del Congo) un anno dopo dal clero cattolico congolese e dai Padri Bianchi.
In realtà non esisteva nessuna alleanza politica tra monarchia e indipendentisti Tutsi. Le due correnti politiche erano in contrapposizione. L’intellighenzia Tutsi rivendica il superamento della monarchia e la creazione di una moderna Repubblica basata sulle regole democratiche. Rivendicazioni molto simili all’élite Hutu. L’unico impedimento dell’unione delle forze patriottiche fu proprio la Chiesa Cattolica egemonizzata dal clero fiammingo al totale servizio del sistema coloniale. Furono i preti fiamminghi che impedirono la formazione di partiti nazionali su basi politiche, aizzando gli Hutu contro i Tutsi e promuovendo partito monoetnici Hutu.
Nel 1956 l’amministrazione coloniale belga sferra l’attacco contro la monarchia e l’élite tutsi (da lei stessa creata) indicendo in settembre le prime elezioni del paese sotto il suffragio maschile universale. Le elezioni riguardavano esclusivamente la nomina degli amministratori di villaggio, città e distretti, che fino ad allora erano nominati dal Re ruandese dopo consultazioni con la classe politica belga per trovare i necessari compromessi politici.
Le elezioni avvennero in un contesto politico dominato dall’appartenenza etnica, frutto della sapiente e subdola opera del clero fiammingo che aveva inculcato nella testa della popolazione retoriche e propagande di rivalsa etnica per impedire l’accesso a idee e programmi politici fossero essi nazionalisti, filo capitalisti o comunisti. Il risultato fu scontato. Gli amministratori vennero nominati su base etnica. Il 66% di essi erano Hutu.
Le elezioni del 1956 rappresentarono un campanello d’allarme sia per la monarchia che per il clero cattolico fiammingo. Allarmato dalla crescente influenza Hutu nella gestione del paese, il Re Mutara III Rudahigwa e il Consiglio Superiore (formato da latifondisti Tutsi) revocarono tutte le nomine concordate con il Belgio per dirigere i ministeri chiave di finanza, educazione, lavori pubblici e interni. Le nuove nomine furono assegnate a fedelissimi della monarchia e giustificate da un manifesto politico denominato: “Mise en point” (puntualizzazione) che rivendicava il diritto diretto di nomina inserendolo nel processo di decolonizzazione in atto.
La Chiesa Cattolica considerò le elezioni come un mezzo successo. Nell’intenzione della Chiesa Cattolica le elezioni del 1956 dovevano rispecchiare le percentuali etniche all’epoca esistenti: 90% Hutu e 10% Tutsi. La percentuale di amministratori Hutu eletti (66%) indicava che una preoccupante minoranza di Hutu (circa il 24%) aveva probabilmente votato per amministratori Tutsi, forse da loro ritenuti più idonei in specifici contesti di villaggio o distretto rispetto ai candidati Hutu. Nessun missionario analizzò se anche gli elettori Tutsi avessero preferito amministratori Hutu sulla base di miglior competenze. Per loro era scontato il voto su base puramente etnica.
La quota di amministratori Hutu desiderata (90%) ma non raggiunta creò panico e apprensioni tra la Chiesa Cattolica in Ruanda in quanto indicava che gli sforzi per creare un dominio mono etnico non erano sufficienti per coinvolgere l’intera popolazione Hutu. La minoranza che aveva votato secondo le competenze tecniche fregandosene dell’appartenenza etnica rappresentava un serio pericolo. Con il tempo potevano “contaminare” le masse Hutu spiegando la differenza tra meritocrazia e etnicità e, arrivando a sostituire l’appartenenza etnica con l’identità nazionale. Il clero e i missionari fiamminghi invece di comprendere i loro errori, arrivarono alla conclusione che la loro progetto politico di dominio monoetnico doveva essere rafforzato da una propaganda più aggressiva nei confronti della minoranza Tutsi.
Fu questa l’origine del “Manifesto Bahutu” pensato e ideato all’est del Congo da specialisti dei Padri Bianchi in collaborazione con vescovi congolesi e fatto firmare a Kayibanda e altri otto ventenni leader hutu allevati dalla Chiesa Cattolica tra cui il giovane Juvenal Habyarimana che, nel 1973 liquidò Kayibanda tramite un golpe che gli permise di giungere al potere grazie ad una lotta clanica interna agli Hutu che caratterizzerà l’intero periodo del regime razial nazista ruandese fino al 1994.
Il Manifesto Bahutu fu il primo documento ideato dalla Chiesa Cattolica in sostegno al HutuPower che si riferiva a Tutsi e Hutu come entità totalmente separate e antagoniste, etichettando i Tutsi come “Hamita” (stranieri) e accusandoli di aver stabilito un monopolio politico economico e culturale di stampo razzista. Il Manifesto rivendicava la fine di questo fantomatico monopolio razzista con la democrazia basata non su programmi politici ma sulla legge statistica delle etnie esistenti nel paese.
Il Manifesto fu diffuso anche in Belgio portando all’attenzione dell’opinione pubblica i problemi sociali del Ruanda che, fino ad allora, erano stati trattati solo da sociologi e dall’amministrazione coloniale. Una scelta fondamentale in quanto il clero fiammingo intendeva preparare il consenso dell’opinione pubblica belga ad un futuro regime raziale, presentando una lettura unilaterale della realtà, semplificata negli stereotipi Tutsi cattivi feudatari, Hutu contadini buoni sfruttati.
Nel 1958, un anno dopo la pubblicazione e diffusione del Manifesto che aveva aumentato la polarizzazione etnica della società ruandese, il Re Mutara III Rudahigwa compì un fatale errore che aumentò l’odio etnico contro i Tutsi. Il leader Hutu moderato Joseph Gitera rese visita al Re presso il palazzo reale nel tentativo di creare un fronte politico comune Hutu – Tutsi che potesse guidare il paese verso l’indipendenza e controbilanciare i movimenti estremisti Hutu e Tutsi che erano sorti dopo la pubblicazione del Manifesto Bahutu. Per salvare il Paese, Gitera aveva deciso di mettere in secondo piano la sua convinzione politica sulla necessità di superare il sistema monarchico, rimandandolo a dopo l’indipendenza.
Nonostante un considerevole rispetto per il Re dimostrato durante da Gitera l’incontro, Rudahigwa lo trattò con disprezzo chiamandolo “inimangarwanda” (odiatore del Ruanda). Quella umiliazione spinse Gitera e tutta l’ala moderata Hutu nelle braccia dell’estremismo HutuPower con evidente danno alla minoranza Tutsi e alla Monarchia. Gitera collaborò con la rivista estremista di Kayibanda: Kinyamateka pubblicando un rapporto dettagliato del trattamento del Re subito, confutando la sua immagine semi-divina e accusandolo del razzismo pro-tutsi.
Un’occasione d’oro per l’amministrazione belga per sbarazzarsi della monarchia e dell’élite Tutsi considerata troppo radicale e quindi pericolosa per il delicato processo di indipendenza. L’élite Tutsi era anche sospettata di essere promotrice di ideologie di sinistra se non comuniste. Due mesi dopo la pubblicazione dell’articolo di Gitera, il ministero coloniale belga cercò di destituire il Re Rudahigwa ma la sua popolarità con i capi regionali e i Tutsi (che temevano il crescente movimento HutuPower) scatenò una serie di scioperi e proteste che costrinsero i belgi a fare marcia indietro.
All’inizio del 1959, il Belgio convocò una commissione parlamentare per esaminare le opzioni per l’eventuale indipendenza, pianificando delle elezioni politiche per la fine dell’anno. Con i belgi e la maggiorana del clero cattolico al loro fianco, Gitera e Kayibanda iniziarono una campagna anti tutsi che spinse il Re alla follia. Mutara III Rudahigwa divenne alcolizzato e paranoico. Morì presso un ospedale in Burundi nel luglio del 1959.
La sua morte peggiorò la situazione etnica. I Tutsi erano convinti che fosse stato avvelenato per ordine del Belgio e della Chiesa Cattolica. Gli Hutu erano convinti che il Re fosse stato costretto ad un suicidio ritualistico per volere dei Tutsi al fine di eleggere un Re “TutsiPower”. La cieca follia di odio etnico instillata dalle potenze religiose e terrene europee impedì al popolo ruandese di accettare la semplice realtà, descritta dai medici burundesi (sia hutu che tutsi). Rudahigwa era morto di emorragia celebrale dovuta dalle sue condizioni di stress e largo abuso di alcolici.
L’élite Tutsi agì immediatamente incoronando il fratello di Rudahigwa: Kigeli V Ndahindurwa senza coinvolgere la maggioranza Hutu e l’amministrazione belga. Dopo l’incoronazione di Kigeli V, diversi capi Tutsi e funzionari del palazzo che desiderano una rapida indipendenza formarono il partito dell’Unione Nationale Ruandaise (UNAR). Sebbene l’UNAR fosse pro-monarchia, non era controllato dal re. Progressivamente la sua politica anti-belga si fuse nel nascente movimento di indipendenza Pan Africano e si avvicinò all’ideologia terzomondista offerta dalla determinazione dei popoli della dottrina marxista.
La Chiesa Cattolica rispose promuovendo apertamente l’odio razziale e il dominio Hutupower con la scusa di assicurare la rivincita morale e sociale delle masse contadine Hutu. Affidarono il compito a Kayibanda di creare il partito razial nazista: il PARMEHUTU (Partito del Movimento di Emancipazione Hutu) che aveva come principali obiettivi la destituzione del Re e la cacciata dei Tutsi dal paese.
L’amministrazione belga tentò di limitare il partito Tutsi che controllava i principali ministeri tentando, senza successo, di deporre i leader della UNAR e i ministri ad essi collegati. In reazione l’ala estremista “TutsiPower” prese il sopravento all’interno della UNAR e chiese il sostegno dell’Unione Sovietica. Alla fine di ottobre la società ruandese aveva raggiunto il punto di rottura. La rivolta Hutu e le prime pulizie etniche contro i tutsi sarebbe scoppiate a novembre.

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