Abbas è arrivato su un volo speciale che lo ha depositato a Freetown, in Sierra Leone.
Era accompagnato da quattro poliziotti. Era incatenato mani e piedi, bendato e imbavagliato. Come gli schiavi che nell’800 erano catturati dagli arabi, dagli spagnoli o dai portoghesi ed erano trascinati sino all’Avana, a Cuba, per essere messi in vendita nei mercati.
La Sierra Leone è sempre stato un punto di smistamento del traffico di schiavi. Le lotte tribali portavano i vincitori a vendere i prigionieri ai migliori offerenti. E’ da queste coste che partirono gli schiavi ribelli che si ammutinarono e uccisero il capitano sulla nave Amistad, storia che ha ispirato parecchie opere letterarie e cinematografiche. Ed è qui, a Freetown che i primi schiavi liberati, dall’Inghilterra, veniva lasciati a combattersi la terra con i locali.
Abbas è tornato indietro dopo tre anni e mezzo, passati tra campi di permanenza per emigranti, in attesa dei permessi, e prigioni.
È arrivato in Brasile con un aereo e, dopo un soggiorno di sei mesi, in un campo di accoglienza, ha iniziato il lungo viaggio verso nord.
Ha preso un autobus verso il Perù, insieme ad altri migranti come lui. Dopo qualche giorno di permanenza nelle prigioni di Lima, le autorità locali hanno messo a disposizione diversi autobus per lasciare il paese. Verso la Colombia.
Dopo la Colombia è stata la volta di Panama. Sempre grazie ad “autobus” malandati, messi a disposizione dei governi, per liberarsi degli indesiderati, dopo qualche giorno di prigione passati a pane raffermo, acqua e un uovo.
Qualche pezzo a piedi, con le piaghe, come tra la Costa Rica e il Nicaragua, perché tra i due paesi ci sono problemi sempre in bilico tra i campi di accoglienza e i penitenziari fino a Tijuana. Sulla frontiera con gli Stati Uniti.
Appena attraversata Abbas si è recato all’ufficio immigrazione e ha fatto richiesta di asilo.
Quattro giorni dopo è stato condotto in carcere. Poi è stato trasferito da un penitenziario all’altro. In Georgia, alla periferia di Atlanta è rimasto incarcerato per sei mesi, senza vedere la luce del sole, un avvocato e nemmeno il responsabile della Croce Rossa. È rimasto per diciannove mesi in carcere, senza nessuna accusa, sballottato dalla California, al Texas, alla Florida e poi, scortato come un cane che ha la rabbia, è stato riportato indietro, depositato al mittente, come un pacco postale.
Al suo arrivo nessuno della famiglia si è presentato a riceverlo. Troppo umiliante per il padre e la madre accogliere colui che doveva portare lustro e arricchire la famiglia. E allora Abbas è rimasto in aeroporto per due giorni, sino a che l’ufficio immigrazione non ha chiamato noi.
Abdulay Daramy ha chiuso la telefonata, ha imbracciato lo zaino ed è partito verso l’aeroporto. Un viaggio in bus (da queste parti li chiamano poda-poda), fino al molo, poi un battello e poi un altro bus per raggiungerlo. Abdulay ha corso per raggiungerlo e permettere ad Abbas di raggiungere la città. Non aveva un soldo in tasca e non sapeva dove andare.
Aveva paura di arrivare in città, voleva evitare di incontrare i propri parenti e i propri amici: non voleva ascoltare risate di scherno dei suoi concittadini.
L’Europa e l’America sono le vie di fuga da quello che è uno dei dieci paesi più poveri al mondo, malgrado ci siano ricche miniere di diamanti e nel 2021 cominceranno le trivellazioni esplorative per il petrolio. Chi torna indietro è un perdente che non ha saputo approfittare dell’occasione ricevuta.
Abdulay Daramy lo sa benissimo. Anche lui è uno di quei “milionari che hanno fatto bancarotta”. Era scappato durante la guerra civile, si era stabilito in Germania e aveva messo su famiglia. Una moglie e due figli. Dopo tredici anni,un’infrazione al codice della strada. La polizia lo aveva fermato mentre guidava in stato di ebrezza. Lui aveva pagato immediatamente la multa, ma non c’era stato nessun santo e nessuna giuria alla quale appellarsi. Era stato arrestato, maltrattato ed era stato riportato indietro. Con un volo charter.
La sua famiglia è rimasta in Germania. Ad attendere un suo eventuale ritorno. Adesso sono passati undici anni e lui vive con una nuova compagna in Sierra Leone.
Grazie all’aiuto di Amnesty International e di Human Rights Watch e insieme a diversi compatrioti, ex deportati come lui,ha fondato la NEAS, unica associazione in paese che si occupa di deportati.
Oggi siamo in sede e gli ultimi arrivati, riceveranno un regalo per festeggiare il Natale. L’associazione della quale facciamo parte, che si occupa del reinserimento sociale di questi paria, rifiutati due volte, una volta quando sono espulsi e una volta rientrati in patria, e da due nazioni differenti, regala a ognuno dei deportati un pacco di venticinque chili di riso e una busta con circa venti euro.
Oresay si lamenta. È stato deportato qualche mese prima che iniziasse la crisi per il Covid. Per lui un pacco di riso non è abbastanza. Ha due mogli e sei figli che lo hanno aspettato nei tre anni che ha passato, sballottato negli uffici per ottenere un permesso di soggiorno, nel Regno Unito, dalle parti del Sunderland.
Sperava che la sua condizione familiare lo aiutasse a ottenere un trattamento migliore.
Patrick arriva, mi saluta e mi chiede come vadano le cose in Italia. Non possiamo stringerci la mano, ma chiacchieriamo per qualche minuto. È premuroso e mi chiede come stiano i miei genitori in Italia.
Lui ha lasciato sua moglie e suo figlio in Florida, a Saint Petersburg, due ore da Tampa. Da quando è rientrato è stato per tre volte in ospedale psichiatrico per depressione e tendenze suicide. Prima di avventurarsi al di là dell’oceano era appassionato di fotografia. In Florida ha studiato e aveva cominciato a lavorare in ospedale come tecnico specializzato. Adesso è bloccato a Freetown.
Sulemain prende il suo sacco di riso, se lo carica in spalla e vorrebbe correre via. Mi affretto a salutarlo, prima che torni a essere irreperibile. Non ha un numero di telefono, non se lo può permettere e passa le giornate a bighellonare, dato che è disoccupato. Lui è un ex-bambino soldato che ha vissuto per dodici anni in Germania, dice di avere la mia stessa età (anche se non sa quando è nato) e ha lasciato una famiglia alle sue spalle. Lui ha dimenticato di rinnovare il visto in tempo e la giustizia che non ammette ignoranze, lo ha riportato indietro, ben tre volte. Visto che si è anche auto mutilato e l’ufficio immigrazione non lo ha accettato lacero e sanguinante.
Ci sono novità? Chiede.
NEAS che sopravvive grazie al lavoro volontario di tutti gli ex-deportati e grazie a un generosa donazione di un’associazione umanitaria tedesca, che tiene in piedi la baracca, sta lavorando al momento, a due cose: un progetto di legge che, come per la Costa d’Avorio, vieti le deportazioni, e un progetto in accordo con il ministero dell’Agricoltura, quello dei servizi sociali e quello dell’economia che miri al reinserimento dei deportati nel tessuto lavorativo, tramite la coltivazione del riso (al momento poco remunerativo), quello degli anacardi o delle palme da olio.
Abdulay sorride, oggi abbiamo consegnato una cinquantina di sacchi di riso, e almeno per qualche giorno gli ex-deportati avranno qualche pensiero in meno.
L’ultimo è destinato ad Abbas che con gli occhi lucidi ringrazia. Anche lui come Sulemain attende notizie per il nuovo progetto. Quello che NEAS cercherà di sviluppare nei prossimi mesi. Per offrire un futuro a lui e a quelli come lui che vengono barbaramente deportati. “Metterò tutto da parte!” Mi dice Abbas. “Voglio andare via di nuovo. Devo provarci ancora. Magari questa volta in Europa.”