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“Non disturbare”. La storia di un omicidio politico e di un regime africano diventato cattivo, intervista con l’autrice

Oggi vi presentiamo la scrittrice inglese Michela Wrong, grazie all’intervista del nostro collaboratore Giuseppe Liguori.
Buona lettura.


Focus on Africa è un magazine online italiano. Vogliamo chiederle qual è il contenuto del suo ultimo libro sul Ruanda: “Non disturbare. La storia di un omicidio politico e di un regime africano diventato cattivo”?

Sono stata spinta a scrivere questo libro dall’omicidio di Patrick Karegeya, l’ex-capo dei servizi segreti del Ruanda, il cui cadavere è stato trovato il primo gennaio 2014 in una stanza di un hotel a cinque stelle di Johannesburg, dove era stato attirato da un uomo d’affari suo amico e strangolato da un commando omicida inviato dal suo ex-amico, il presidente Paul Kagame. Ho incontrato Patrick negli anni ’90, quando, come tanti altri giornalisti occidentali, ero in Ruanda per seguire il periodo successivo al genocidio. Egli spesso agiva come responsabile di fatto del Fronte patriottico ruandese (FPR) per i rapporti con i mass-media, dunque non potevo ignorarlo. Negli anni successivi ho seguito a distanza gli eventi e mi hanno incuriosito i crescenti segnali d’insoddisfazione nei ranghi del FPR, con un notevole numero di assistenti fidati e di soldati di Kagame che finiva in esilio, dopo aver denunciato il suo ex-capo. Ma è stato l’omicidio di Patrick che mi ha fatto sentire il bisogno di scrivere un libro: la storia del FPR, come nacque segretamente in Uganda negli anni ’80, come invase il Ruanda nel 1990 e come dei commilitoni, che una volta avevano rischiato tutto l’uno per l’altro, finivano per litigare e, nel caso di Kagame, per ordinare di uccidere gli ex-amici. Era una storia che di tanto in tanto emergeva nei giornali, ma nessuno aveva tentato di raccontarla in un libro. Ho deciso di colmare questo vuoto.

Lei cosa pensa del dittatore Paul Kagame?

Durante le ricerche fatte per la stesura di questo libro, mi ha affascinato scoprire l’opinione che avevano di Kagame i coetanei più vicini a lui, sia gli ugandesi che avevano partecipato con lui al movimento guerrigliero di Yoweri Museveni, sia gli ex-commilitoni al tempo della guerriglia del FPR: “temuto, ma non amato” potrebbe essere una buona sintesi. Molti ricordano il soprannome che gli era stato dato quando lavorava nei servizi segreti del Movimento di resistenza nazionale di Museveni: “Pilato”. Il suo lavoro consisteva nel raccogliere informazioni per incriminare i guerriglieri che si erano comportati male in servizio (frequentare le ragazze dei villaggi, addormentarsi durante il turno di guardia, agire da codardi), informazioni che spesso finivano alla Corte marziale, con fucilazione dei colpevoli. Era dunque considerato uno che punisce. Quando nel 1990, il secondo giorno dell’invasione, fu ucciso Fred, il comandante del FPR che era molto amato da tutti, Kagame prese il suo posto, ma dovette imporsi su colleghi che non erano particolarmente leali nei suoi confronti e affidarsi a una rigida disciplina per metterli in riga. Da quel momento in poi, non ha fatto altro che punire. Molti parlano di un suo complesso d’inferiorità, forse dovuto al fatto d’essere cresciuto in un campo profughi. Il Ruanda di oggi somiglia al suo leader: una società piena di tensione, aggressiva, maschilista, quasi paranoica, dove oggi cittadino si sente (a ragione) continuamente controllato.

Ha delle prove che sia stato Kagame a dare l’ordine di uccidere Patrick Karegeya e altri oppositori politici?

Le prove sono schiaccianti. Ciò che mi affascina in questi attentati a dissidenti ruandesi in esilio è che Kigali si preoccupa ben poco di non lasciare tracce, probabilmente perché (e ciò è comprensibile) crede di poter sempre farla franca. I servizi segreti del Ruanda sono stati poco accurati, contattando indiscriminatamente i ruandesi residenti all’estero in contatto con i principali dissidenti e chiedendo loro di ammazzarli. Molti di questi ruandesi, invece, sono subito andati dalle vittime designate, cioè da Patrick Karegeya e dal generale Kayumba Nyamwasa, ex-capo delle forze armate. Hanno fatto in modo che le conversazioni fossero registrate e poi hanno pubblicato su internet le intercettazioni più interessanti: oggi chiunque può ascoltarle. Theogene Rudasingwa, ex-assistente di Kagame ora in esilio, ha pubblicato un libro pieno di trascrizioni delle conversazioni telefoniche tra il capo della polizia del Ruanda e un tassista residente in Belgio, che era stato assoldato per ucciderlo. In aggiunta a ciò, abbiamo l’imbarazzante testimonianza venuta alla luce durante l’inchiesta a Johannesburg sull’omicidio di Karegeya, nella quale è emerso che i “Falchi”, l’unità speciale della polizia sudafricana, hanno detto ad alcuni parlamentari che era inutile perseguire i colpevoli, perché il governo ruandese era “direttamente coinvolto”. Alla fine quest’indagine ha portato all’emissione di due mandati di cattura e alla richiesta, da parte delle autorità sudafricane, dell’estradizione di due sospetti residenti in Ruanda: nessuno è stato sorpreso dal rifiuto apposto dal governo ruandese. Alcuni occidentali, estimatori di Kagame, hanno qualche volta suggerito che questi attentati siano stati fatti da subordinati troppo zelanti, che avrebbero agito senza l’approvazione di Kagame. Ciò è semplicemente incredibile, dato lo stile di comando di Kagame, che ama seguire tutto nei minimi dettagli, e la durata nel tempo di questi attentati.

Perché gli Stati Uniti e il Regno Unito continuano a sostenere il Ruanda?

Uno dei motivi è il senso di colpa dell’Occidente, per non aver impedito nel 1994 che il genocidio avvenisse. Ex-esponenti di spicco del regime, che io ho intervistato, hanno rilevato che, per tacitare il dissenso, nelle capitali occidentali hanno sempre giocato con successo la carta del senso di colpa. Un altro motivo è il ruolo del Ruanda come testimonial dei programmi di sviluppo: i rappresentanti ufficiali della Banca mondiale, del FMI, del DfiD e dell’USAID cercano disperatamente delle storie coronate da successo, per giustificare i loro programmi di sviluppo, ed è proprio ciò che il Ruanda rappresenta. Ma alla fine gioca un ruolo importante una sorta di paternalismo, che sfiora il razzismo. I fautori di questa tesi sostengono che i Grandi laghi sono una regione difficile, con una terribile storia recente e che i suoi abitanti hanno sofferto così tanto, che sono disposti ad accettare un livello di repressione che altri non accetterebbero, purché non ci sia la guerra e ci sia cibo a sufficienza. Io metterei in dubbio quest’ipotesi. Per fortuna, però, il quadro sta cambiando. Ci sono forti segnali che gli Stati Uniti ed il Regno Unito sono sempre più cauti sul Ruanda: i loro rappresentanti ufficiali hanno pubblicamente espresso forti preoccupazioni riguardo al rispetto dei diritti umani e Kagame non era nella lista dei cinque leader africani invitati in USA per il vertice sul clima. Kagame ha notato questo raffreddamento: è per questo che è stato lieto di sminuire l’importanza delle sue precedenti critiche alle azioni della Francia nella regione dei Grandi laghi e di accettare il presidente Emmanuel Macron come il suo nuovo migliore amico. Questa nuova amicizia è un cinico atto di realpolitik da entrambe le parti, quella francese e quella ruandese.

Secondo Lei, c’è qualche possibilità di un cambiamento politico in Ruanda?

Nel breve periodo questo sembra improbabile e, se ciò dovesse accadere, temo che sarà un cambiamento violento. È difficile immaginare un cambiamento politico pacifico in un Paese in cui tutte le elezioni sono truccate, i mass-media sono passivi e l’opposizione è completamente sottomessa. Quelli che conoscono meglio Kagame, e che avrebbero forse potuto dominare i suoi eccessi più gravi e diventare un giorno sfidanti politici, vivono all’estero e sono in pericolo di vita. Kagame sposta sempre i suoi generali da un posto all’altro, prima umiliandoli e poi promuovendoli, per evitare che essi costruiscano dei feudi. Ha giocato con successo la carta del divide et impera ed è al potere ormai da un quarto di secolo; qualunque cosa accada a quest’uomo (dopo tutto, non è immortale), ritengo che il potere resterà ancora a lungo saldamente nelle mani di una piccola élite militare tutsi, che ruota intorno a Kagame e alla sua famiglia. Non vedo dunque nessuna possibilità di cambiamento sul terreno, ma penso che stia finalmente cambiando la percezione degli occidentali su chi egli sia e sulla natura del suo regime.

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