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Sudan, un anno fa il massacro di Khartoum. 108 morti nell’attacco a un sit-in pacifico

Il 3 giugno di un anno fa si compiva a Khartoum l’epilogo di una rivoluzione che aveva cambiato per sempre il volto del Sudan.  Le forze paramilitari aprirono il fuoco sui manifestanti in presidio pacifico davano al quartiere generale della Difesa, fu un massacro. Centinaia le vittime, migliaia i feriti.  Per lungo tempo non si compreso quanto grave fosse stato il bilancio dei morti. Decine di corpi furono gettati nel Nilo per tentare di ridimensionare la portata di quell’attacco. Per giorni continuarono a spuntare uno alla volta dal fiume che attraversa la capitale sudanese.  Nonostante i mattoni legati alle gambe, i cadaveri dei manifestanti uccisi nel corso dell’assalto delle milizie agli ordini del Consiglio transitorio militare sono riemersi tutti, portando a galla l’orrore che si era consumato in quelle ore a Khartoum. Non meno di 108 vittime, che si aggiunsero alle 300 in tutto il Paese dove migliaia di persone continuavano a manifestare, dopo la caduta di Bashir, per chiedere l’avvio di un governo civile. E poi ci sono gli ‘scomparsi’. Soprattutto di attivisti che al momento dell’attacco non erano al sit-in ma di cui non si è saputo più nulla, come Mohammed Naji, i fratelli Musab e Ahmed al-Dai Bishara, quest’ultimo anche giornalista, e Hashim Wad Gadif. Tutt’ora desaparecidos.
“Il 3 giugno è una delle date più tristi per tutto il popolo del Sudan”. Le parole pronunciate oggi dal primo ministro Abdalla Hamdok in occasione dell’anniversario dal massacro. “Attendiamo  i risultati dell’inchiesta del Comitato indipendente su quell’attacco intollerabile ma vi assicuro che i responsabili saranno individuati r sottoposti a giusto processo” ha annunciato il premier in un video mo sul suo profilo Twitter,

Hamdok ha anche assicurato che, nonostante le difficoltà economiche del Paese, saranno riconosciuti dei  risarcimenti ai familiari delle vittime.

“La verità – ha sottolineato Hamdok -consoliderà la democrazia e promuoverà il progresso di questo Paese, che vede insieme governo e movimento rivoluzionario”.

L’attacco pianificato dalle Rapid support force, con il sostegno delle Forze di sicurezza (NISS) e dalla milizia islamista di AbdelHai, per una ‘potenza di fuoco’ di 10.000 uomini, era iniziato alle prime luci dell’alba.

I manifestanti nelle tende del sit-in davanti al quartier generale dell’esercito furono colti di sorpresa. I primi furono picchiati a morte e gettati con dei pesi nel Nilo. Alcuni fatti a pezzi con machete. Poi sono iniziati gli spari.

Chi ha provato a fuggire è stato rincorso fin negli ospedali.Le donne prima di essere uccise stuprate, non solo le attiviste e le dottoresse che prestavano soccorso ai feriti ma anche le ‘signore del tè che erano lì solo per guadagnare qualche pounds sudanese.

Che qualcosa di grave stesse per avvenire era nell’aria da giorni e quando dalle 16 del 2 giugno i veicoli dei militari davanti al ministero della Difesa erano stati sostituiti con quelli delle Rapid Support Force i leader delle rivolte avevano capito che un attacco fosse imminente. Ma avevano chiesto a tutti i manifestanti di non lasciare il presidio e lanciato un appello per chiedere ad altri di raggiungere Nile Street.

Una scelta costata la vita a tanti innocenti che chiedevano solo che si desse corso al percorso democratico per il quale si erano battuti fino alla fine della dittatura di Bashir.

Nessuno poteva immaginare che finita l’era del regime precedente, il Sudan fosse caduto nelle mani di assassini altrettanto feroci che non hanno esitato a usare le milizie paramilitari al comando del generale  Mohamed Hamdan Dagalo meglio conosciuto come ‘Hemeti’, che tuttora ricopre un ruolo di primo piano nel Consiglio Sovrano guidato dal generale Burhan, capo della Giunta militare che aveva preso il potere dopo il golpe dell’11 aprile del 2019.

Le atrocità del 3 giugno ebbero un’unica conseguenza positiva, la nascita del governo di unità nazionale presieduto dall’economista Hamdok.

Nominato primo ministro lo scorso agosto, il primo ministro ha avviato una serie di riforme che il vecchio establishment non ha gradito. Lo scorso 8 marzo è scampato a un attentato che aveva un solo obiettivo, interrompere quel percorso di democratizzazione costato la vita a centinaia di sudanesi è così lungamente atteso. Ma così non è stato.

Almeno per ora.

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