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RDCongo: violenze e morti in alcune manifestazioni anti-ONU nelle province orientali

Nell’ultima settimana di luglio, nell’est della Repubblica Democratica del Congo ci sono state diverse manifestazioni contro la MONUSCO, ossia la Missione di peacekeeping dell’ONU che dal 2010 opera per la stabilizzazione delle province orientali congolesi e che, a sua volta, ha sostituito una missione simile, la MONUC, che era stata istituita dalle Nazioni Unite nel 1999.

I principali cortei di protesta si sono avuti nelle città di Goma, Butembo e Uvira, rispettivamente nel Nord Kivu e nel Sud Kivu, dove sono scoppiati anche violenti scontri con la polizia e l’esercito che hanno causato decine di morti. A Goma ci sono stati 15 morti, 12 tra i civili e 3 tra i membri dello staff della MONUSCO (due indiani e un marocchino), mentre a Butembo sono morti un casco blu e due agenti di polizia (ma secondo il capo della polizia cittadina, Paul Ngoma, vi sarebbero anche almeno 7 civili uccisi e un numero imprecisato di feriti).

A Uvira, invece, quattro persone sono morte per folgorazione: secondo il portavoce del governo congolese e ministro delle Comunicazioni, Patrick Muyaya, “i caschi blu hanno sparato in aria e i colpi hanno colpito un palo della luce, per cui si è strappato un cavo che ha colpito quattro manifestanti, uccidendoli”.

Le proteste sono state convocate da una fazione dell’ala giovanile del partito al governo, che ha accusato la MONUSCO di “inefficienza”, perché, secondo i dimostranti, in tanti anni non è riuscita a fermare o, almeno, a controllare la violenza dei tanti gruppi armati ribelli. Durante le marce svoltesi a Goma, centinaia di contestatari hanno bloccato le strade e preso d’assalto una base delle Nazioni Unite il 25 luglio, intonando slogan contro l’ONU e chiedendo la partenza dei caschi blu dalla regione. In quell’occasione si sono registrati lanci di bottiglie molotov, danni alle finestre e saccheggi di computer, mobili e altri oggetti di valore, mentre la polizia delle Nazioni Unite ha sparato gas lacrimogeni nel tentativo di respingerli.

Il segretario generale dell’ONU, Antonio Guterres, ha condannato gli attacchi alle forze di pace e al personale della MONUSCO, avvertendo che “qualsiasi attacco contro i caschi blu delle Nazioni Unite può costituire un crimine di guerra”.

Intanto, il governatore della provincia del Nord Kivu, Constant Ndima, ha vietato manifestazioni e marce politiche, spiegando alla popolazione che “il nostro nemico non è la MONUSCO, ma l’M23”, ossia il gruppo ribelle tutsi filo-rwandese per il quale da almeno due mesi le relazioni diplomatiche tra RDC e Rwanda si sono fortemente degradate, al punto che l’EAC, la Comunità degli Stati dell’Africa Orientale, ha organizzato prima un summit a Nairobi, in Kenya, poi altri due a Luanda, in Angola, per tentare di avviare una ricucitura prima che sia troppo tardi: prima con i presidenti Tshisekedi e Kagame, poi con i rispettivi ministri degli esteri.

Le manifestazioni anti-MONUSCO sono state condannate anche dalla Chiesa cattolica locale, attraverso la CENCO, la Conferenza episcopale nazionale del Congo, il cui presidente, mons. Marcel Utembi, ha rilasciato un comunicato in cui afferma che “il ricorso alla violenza o al saccheggio costituisce un atto che non può che amplificare e perpetuare il male oltre che la sofferenza delle popolazioni”, aggiungendo una raccomandazione, rivolta a politici e leader sociali, di astenersi da qualsiasi discorso che fomenti l’odio e la violenza.

Per oltre un decennio, la MONUSCO ha potuto contare su più di 12.000 soldati e 1.600 poliziotti, almeno fino al novembre 2021, quando ha cominciato un graduale ritirato. Nel frattempo, da oltre un anno, nelle province orientali della RDC vige lo stato di emergenza e vengono regolarmente compiute operazioni congiunte degli eserciti congolese e ugandese. Nonostante questo imponente dispiego di forze militari, la situazione sul campo non solo non è migliorata, ma le violenze si sono esacerbate, perché si contano almeno 16 attacchi ai campi per sfollati, con centinaia di morti, e decine di migliaia di rifugiati in più (almeno 20.000 nelle ultime settimane dalla sola zona di Boga, nella provincia di Ituri, secondo l’ultimo comunicato dell’ONU). In questo scenario, la strategia più recente per controllare la situazione è stata individuata a Luanda una settimana fa e prevede una ulteriore forza militare internazionale di interposizione, sulla cui efficacia, tuttavia, in molti sono scettici.

Nel frattempo, secondo quanto riferito da un giornalista della Reuters, a Goma il personale delle Nazioni Unite sarebbe stato evacuato con un convoglio scortato dall’esercito. Sono state avviate delle indagini per individuare i responsabili delle uccisioni e delle violenze, ma ormai è piuttosto chiara la sensazione che, come ha affermato il vice-capo MONUSCO, Kassim Diagne, il legame tra la missione e la popolazione è “fortemente compromesso” da questi incidenti, anche perché da più parti si segnala la presenza, tra i dimostranti, di miliziani Mai-Mai, quindi di ribelli che più volte si sono macchiati di eccidi e incendi di interi villaggi.

Infine, un’ulteriore fonte di preoccupazione arriva dal confinante Burundi, perché, come si sospettava da mesi, ora un rapporto del gruppo per i diritti umani “Burundi Human Rights Initiative” (BHRI) – ne riferisce anche al-Jazeera – conferma che questo Paese ha inviato nel dicembre 2021 centinaia di militari e Imbonerakure – membri della lega giovanile del partito al governo – nella Repubblica Democratica del Congo per combattere i RED-Tabara, un gruppo di opposizione armata burundese, in una missione segreta.

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