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Africa Orientale: un summit per pacificare le province orientali della RDCongo

L’allargamento della Comunità dell’Africa orientale (EAC, East African Community) alla Repubblica Democratica del Congo, poco più di due mesi fa, ha permesso di organizzare un summit (localmente chiamato “conclave”) a Nairobi, in Kenya, lunedì 20 giugno 2022, in cui i presidenti di Kenya (Uhuru Kenyatta), Uganda (Yoweri Museveni), Rwanda (Paul Kagame), Sud Sudan (Salva Kiir), Burundi (Evariste Ndayishimiye), Tanzania (Samia Suhulu) e RDC (Felix Antoine Tshisekedi Tshilombo) hanno discusso sulla “sicurezza dell’intera regione”, con particolare riferimento alla recrudescenza della crisi nelle province orientali congolesi.

Si tratta del terzo vertice dall’adesione della RDC all’EAC, dopo quelli dell’8 e del 21 aprile, ed è stato interamente dedicato all’eventualità di creare una forza militare comune che possa interporsi tra i gruppi che si contendono il controllo dell’Ituri e del Nord e del Sud Kivu, dove la situazione sul campo si è fortemente deteriorata proprio negli ultimi mesi, anche con le tensioni tra RDC e Rwanda: quest’ultimo è accusato dal governo congolese di aver invaso i propri territori orientali nel Nord Kivu, nell’area di Bunagana, coprendosi dietro la bandiera dell’M23, un gruppo ribelle tutsi.

Il giorno prima, domenica 19 giugno, a Nairobi si erano già incontrati i capi di stato maggiore degli Stati dell’EAC per discutere della composizione di questa eventuale forza militare internazionale e, ovviamente, del suo comando. Si tratta di un principio che era già stato accolto da tutti i Capi di Stato dalla Comunità, lo scorso 21 aprile, e confermato dall’ultimo comunicato del presidente Uhuru Kenyatta, attuale presidente dell’EAC: almeno a parole, tutti sono d’accordo che il nuovo “esercito” debba essere formato e impiegato per combattere e neutralizzare tutti i gruppi armati locali, nonché quelli stranieri che si oppongono a qualsiasi processo politico.

Il vertice di lunedì si è tenuto a porte chiuse, ma da un comunicato precedente diffuso dalla Presidenza congolese sappiamo che il Capo di Stato Tshisekedi era intenzionato a “denunciare chiaramente ai suoi omologhi del gioco ambiguo di alcuni Paesi vicini, la cui connivenza con i gruppi terroristici dell’M23 deve fermarsi”, per cui avrebbe chiesto “l’immediato ritiro delle truppe rwandesi dal territorio congolese”.

In serata, poi, un comunicato comune ha rivelato che i sette presidenti hanno effettivamente ordinato un cessate il fuoco immediato, nonché il ritiro dalle posizioni recentemente conquistate, cioè l’abbandono di Bunagana da parte dell’M23 e dei suoi alleati, in cui sono insediati da una settimana. La situazione, tuttavia, è così complessa che sarebbero addirittura 56 i gruppi armati già consultati da esperti della RDC e del Kenya nell’ambito del cosiddetto “processo di pace di Nairobi”.

In inglese:

In francese:

Inoltre, i Capi di Stato hanno anche esposto una serie di temi che richiedono una soluzione concertata, urgente e duratura, come la presenza di combattenti stranieri, la DDR (“démobilisation, désarmement et réintégration”, cioè smobilitazione, disarmo e reintegrazione) e lo status dei rifugiati e degli sfollati interni nel Paese. Si è denunciato anche il crescente incitamento all’odio, come aveva dichiarato giorni fa il vescovo cattolico di Goma, monsignor Willy Ngumbi Ngengele: “la popolazione non deve cadere nella trappola di chi vuole creare caos nel nostro Paese per servire i pescatori d’acqua in difficoltà da tutte le parti; […] la violenza è l’arma dei deboli e non porta a nulla se non in ospedale o nella tomba”. D’altra parte, il pericolo è concreto: nell’ultimo anno nelle province orientali congolesi si sono avuti almeno 16 attacchi ai campi sfollati con 185 morti e 117mila sfollati nel solo Nord Kivu.

Nei giorni scorsi in varie zone della RDC orientale si sono registrati diversi messaggi che invitano i congolesi ad “attaccare i rwandesi e i tutsi”, dal momento che ormai si è ampiamente diffusa la convinzione che l’esercito rwandese appoggi i ribelli dell’M23, sebbene il Rwanda lo continui a negare.

In effetti, sabato 18 giugno a Kalima, cittadina situata nel territorio di Pangi, è stata organizzata una manifestazione a sostegno delle FARDC, le Forze Armate della Repubblica Democratica del Congo, e, secondo il presidente dell’associazione “Forces vives du Maniema”, un uomo (un pastore rwandofono) sarebbe stato preso di mira dalla folla, inseguito, linciato e bruciato. Il giorno precedente, invece, la polizia rwandese ha ucciso un soldato congolese che avrebbe attraversato la frontiera tra Goma e Gisenyi, cominciando a sparare.

La tensione tra Kinshasa e Kigali cresce da settimane: prima la RDC ha sospeso i voli provenienti dal Rwanda, poi sono stati bloccati tutti gli accordi commerciali e diplomatici; Questo ha preoccupato immediatamente i Paesi della regione dei Grandi Laghi e numerose autorità internazionali, che hanno subito invitato a una de-escalation: i Presidenti del Kenya e dell’Uganda si sono detti “preoccupati”; Donatien Nsholé, segretario generale e portavoce della Commissione episcopale nazionale del Congo (Cenco), ha deplorato l’aumento delle violenze e ha auspicato che non si danneggino le relazioni tra i popoli della RDC e del Rwanda; Bintou Keita, capo della Missione di stabilizzazione dell’ONU nella RDC, ha ricordato che “l’incitamento all’odio è violento e ci divide”; il Pole Institute, a Goma, ha denunciato la stigmatizzazione della comunità rwandese in città e ha denunciato la “propaganda dell’odio”, parlando di una “evoluzione” da “prendere sul serio”. Si è espresso anche il Segretario Generale delle Nazioni Unite, affermando che “l’incitamento all’odio è un pericolo per tutti ed è nostro dovere verso tutti combatterlo”.

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