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Nuove proteste in Sudan, ancora repressioni dei militari. Centinaia di feriti e 7 morti

Oltre un milione di persone ha animato nelle strade di Khartoum e delle altre città del Sudan una protesta pacifica per reclamare l’avvio di un governo civile.

Il popolo sudanese è tornato in piazza per chiedere al Consiglio militare transitorio, al potere dal golpe che ha deposto lo scorso 11 aprile il presidente Omar Hassan al-Bashir, di cedere il passo e rispettare la volontà popolare.

La data scelta è altamente simbolica, 30 anni fa il 30 giugno l’allora generale Bashir destituiva con un colpo di stato il presidente democraticamente eletto, Sadiq al-Mahdi. 

Oggi l’ex dittatore è in prigione dove attende i processi per i suoi crimini ma i sudanesi non sono ancora liberi.

Nonostante il massacro del 3 giugno, quando le Rapid support force, milizie agli ordini della Giunta militare, causarono la morte di 130 persone radunate davanti al quartier generale sella Difesa, uomini, donne e bambini non hanno esitato a manifestare senza paura. 

E ancora una volta i generali che hanno preso il controllo del Paese sono ricorsi alla violenza per contrastare la forza dei manifestanti che chiedono libertà, giustizia, democrazia.  Centinaia di feriti, molti in gravissime condizioni,  e 7 morti il bilancio delle repressioni. Per ora.

Numerosi cecchini, mentre la polizia lanciava gas lacrimogeni, hanno aperto il fuoco nella folla a Khartoum durante la marcia di protesta per impedire che attraversasse il ponte, che collega Omdurman alla capitale, per dirigersi verso il palazzo presidenziale.

Uno schema già visto, stesso modus operandi  perpetrate decine, centinaia, migliaia di volte per reprimere il dissenso. A Khartoum come  in Darfur e sui Monti Nuba e in tutte le altre regioni sudanesi dove il governo di Bashir, prima, e la  Giunta militare che lo ha deposto, oggi,  utilizzano le milizie, i famigerati janjaweed, per ‘sgomberare’ aree di cui vogliono il controllo.

Finita l’era del regime precedente, il Sudan è caduto nelle mani di assassini altrettanto feroci.

Il braccio armato del Consiglio transitorio, le forze paramilitari che hanno cambiato nome ma mantenuto gli stessi metodi, è sotto il comando del generale Mohamed Hamdan Dagalo meglio conosciuto come ‘Hemeti’.

È ormai chiaro a tutti che a guidare il la Giunta militare non sia il generale Abdel Fattah al-Burhan ma l’uomo forte che mobilita le squadre della morte e che è in grado di controllare.

Appare surreale, in tale contesto, l’annuncio del Cmt di voler istituire un’inchiesta per accertare chi abbia sparato sui manifestanti  e di essere pronto a riprendere colloqui senza condizioni con i gruppi di opposizione.

Ma questi ultimi non hanno alcuna intenzione di riprendere le trattative con chi si è macchiato le mani di sangue di centinaia di sudanesi. “Prima di qualsiasi negoziato, serve giustizia”. È la ferma posizione dell’Associazione dei professionisti che, ha ribadito anche oggi, proseguirà con “la resistenza non violenta” fino a quando i militati non lasceranno il potere a un governo civile. Per il prossimo 14 aprile è già convocato un nuovo sciopero generale e altre repressioni saranno inevitabili.

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