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G7, in Tigray non c’è bisogno di organizzazioni non governative ma di un intervento militare

Durante il G7 Summit 2021 le sette maggiori economie avanzate del mondo hanno chiesto un cessate il fuoco immediato in Tigray, il ritiro delle truppe eritree e un processo politico completo e credibile. Si è posto particolare accento all’accesso senza ostacoli per gli operatori umanitari per salvare la popolazione.

Siamo profondamente preoccupati per il conflitto in corso… e per le notizie di una grave tragedia umanitaria in corso, comprese potenzialmente centinaia di migliaia di persone in condizioni di carestia“, afferma una dichiarazione rilasciata dopo il vertice del G7.

La dichiarazione di preoccupazione delle democrazie più ricche e potenti del mondo arriva poco dopo che l’alto funzionario umanitario delle Nazioni Unite: Mark Lowcock ha dichiarato a Reuters che “il cibo viene sicuramente usato come arma di guerra” nel Tigray, dove si trovano l’esercito etiope e i suoi alleati a combattere il Fronte di Liberazione Popolare del Tigray (TPLF).

Un rapporto di questo mese dell’Integrated Food Security PhaseClassification (IPC), sostenuto dalle Nazioni Unite, ha avvertito che 5,5 milioni di persone nella regione stanno “affrontando un’elevata insicurezza alimentare acuta“, di cui 353.000 sono al più alto livello di rischio “catastrofico“. Martedì il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite discuterà della crisi.

La carestia come arma di guerra si associa alle pulizie etniche, alle violenze sessuali, alla distruzione di infrastrutture economiche, sanitarie, educative e al palese tentativo di cancellare l’identità culturale del Tigray distruggendo monasteri, chiese, monumenti, archivi storici e imponendo la cultura e la lingua Amarica. Tutte componenti che determinano la definizione di genocidio, come avvertito un mese fa dal Patriarca della Chiesa Ortodossa Etiope.

Le forze etiopi ed eritree sono state accusate di aver deliberatamente bloccato le forniture di aiuti al Tigray. Gli operatori umanitari riferiscono che varie derrate alimentari destinate alla popolazione vengono rubate o confiscate dai soldati eritree ed etiopi. Il Governo della Prosperità nega, affermando che sta distribuendo assistenza per ripristinare l’ordine nella regione. Così come nega che vi sia una carestia e continua ad affermare che le truppe eritree stanno iniziando a ritirarsi nel loro paese quando notizie certe dimostrano una escalation delle presenza militare eritrea che si è espansa in Oromia (circa 30.000 uomini) e ai confini con il Sudan.

La beffarda sfida del governo centrale di Addis Ababa, basata sul negazionismo e sulla presunta difesa della sovranità nazionale, è stata lanciata dal Vice Primo Ministro e Ministro etiope degli Esteri un giorno prima che i leader del G7 discutessero del “dossier Etiopia”. Un chiaro attacco diplomatico e mediatico preventivo.

Il ministro, Demeke Mekonnen, ha accusato il gruppo di paesi ricchi di “un approccio condiscendentea favore del TPLF e ha chiesto loro di “desiderare da queste attività inutili“. In una dichiarazione video, Demeke ha accusato membri non specificati della “comunità internazionale” di intraprendere “una campagna” contro l’Etiopia“. Secondo lui le accuse rivolte al governo di usare la fame come arma di guerra sono una enorme falsità.

Anche la dichiarata intenzione di collaborare in modo positivo e costruttivo con tutti i partner per aumentare l’assistenza umanitaria e ripristinare i servizi di base nel Tigray viene vincolata agli interessi della dirigenza nazionalista Amhara e dai sogni di potere di un Premio Nobel per la Pace che sta perdendo la sua leadership, trasformandosi progressivamente in un strumento per imporre politica di dominio etnico e le esigenze territoriali e di rivalsa di Afwerki contro i suoi cugini in Tigray.

Le richieste avanzate durante il summit del G7 apparentemente sembrano sensate e indotte da una ferma volontà di fermare questa assurda guerra civile dove la maggior parte delle vittime sono dei civili. Apparentemente.

Nella realtà queste richieste possono diventare un semplice atto di lavarsi la coscienza alla Ponzio Pilato se non sono sorrette da azioni concrete per impedire la continuazione di un massacro organizzato e pianificato di parte della popolazione etiope. Un massacro che ha come fulcro principale il Tigray e diramazioni in Oromia. Non dimentichiamoci i rapporti (quasi ignorati) delle atrocità commesse dall’esercito federale e dai soldati eritrei in questa regione. Le stesse atrocità contro i civili che si stanno consumando in Tigray, applicate in Oromia con identiche modalità.

Il messaggio è chiaro. Chiunque si oppone ai piani di dominio etnico Amhara e alle ambizioni del dittatore eritreo Isaias Afwerki è soggetto alla repressione totale. La mentalità che induce a queste azioni è quella del dominio imposto tramite il ferro e il fuoco: la politica degli Imperatori Amhara di dinastia Salomonica da Menelik I ad Haille Selaisse.

Altrettanto chiara è la volontà del Premier etiope e dei suoi alleati / padroni, di ignorare gli appelli internazionali e di continuare a risolvere una problematica politica (che va ben oltre al confronto con il TPLF in quanto problematica nazionale e non regionale) con l’uso della forza cieca e la repressione totale di determinati gruppi etnici contrari alla centralizzazione dei poteri statali che favorirebbe il dominio Amhara.

Le potenze occidentali si trovano difronte ad una impasse. Le loro proposte per risolvere pacificamente i conflitti in corso in Etiopia sono ignorate. Insistere a porre l’accento alla assistenza umanitaria in un contesto di conflitto bellico generallizato non solo potrebbe risultare fuorviante ma deleterio.

L’assistenza umanitaria di Agenzie ONU e ONG, seppur necessaria e umanamente condivisibile, rischia di diventare uno strumento degli aggressori che cerca di “curare” gli aspetti più violenti di un conflitto sulla popolazione senza risolvere le cause e senza fermare i criminali che hanno ideato l’aggressione e stanno perpetuando crimini contro l’umanità.

Quando tutte le azioni preventive per evitare un conflitto falliscono e, dinnanzi ad un chiaro intento di genocidio, la comunità internazionale non può limitarsi a richieste di principio o a promuovere l’assistenza umanitaria. Deve agire, come ha agito negli anni Quaranta contro il Nazismo.

Proprio dall’Olocausto nazista, del genocidio in Bosnia perpetuato dal governo serbo di Slobodan Milošević, e dell’Olocausto Africano in Rwanda, 1994, scaturisce l’obbligo morale di intervenire militarmente contro un altro Stato per fermare un genocidio.

Questo principio è stato definito in occasione del vertice mondiale tenutosi nel settembre 2005 per celebrare il 60° anniversario delle Nazioni Unite. Per l’occasione fu approvato un documento nel quale si faceva strada l’idea che, nell’ambito delle relazioni internazionali, debba esistere un principio di base al quale si possano determinare le condizioni di un intervento militare moralmente e giuridicamente giustificato in presenza di specifiche, strutturate ed estese violazioni dei diritti umani all’interno di un Paese o di una determinata zona geografica.

Questo principio prevede l’utilizzo graduale, da parte sia dei singoli Stati che della Comunità Internazionale, di tutte le azioni più adeguate per fermare in tempi brevi la sistematica attuazione di crimini contro l’umanità o, peggio ancora, di un premeditato genocidio. Le azioni iniziali devono avere originalmente una natura pacifica ma, in assenza di palese mancata collaborazione del governo reo dei crimini, non può escludere azioni di carattere militare.

In sintesi il principio di intervento militare giustificato è costituito da una norma che mira alla protezione della popolazione mondiale da eventi quali il genocidio, la pulizia etnica, i crimini di guerra e, in generale, i crimini contro l’umanità. L’intervento militare deve scattare quando uno Stato non possa o non voglia proteggere i propri cittadini o sia egli stesso a danneggiarli. In questa situazione la Comunità Internazionale è tenuta ad intervenire e agire di conseguenza per difendere i diritti umani violati.

Tale responsabilità mira ad evitare che possano ripetersi disastri umanitari avventi in Bosnia, Ruanda, Kossovo, Somalia, in quanto sulle istituzioni internazionali grava la responsabilità di prevenire ed impedire tali crimini contro l’umanità.

Ammesso che il governo di Abiy concedesse libero accesso all’azione umanitaria, essa si trasformerebbe in uno strumento del regime per alleviare le sofferenze da lui stesso provocato, e ripulire la sua immagine internazionale. Azioni utili in caso di vittoria militare ottenuta anche con l’utilizzo di armi chimiche. Questo è il caso dell’Etiopia.

Limitarsi a invocare l’accesso agli operatori umanitari apre le porte al rischio di esimersi dalla responsabilità a proteggere la popolazione, sancito nel rapporto del Segretario Generale dell’ONU del 21 marzo 2005 che autorizza un intervento militare nell’ambito del perseguimento del fine della libertà di vivere in condizioni di dignità seguendo il più generale principio di “libertà dalla paura e dalla tirannia”.

L’intervento militare può assumere due forme. La prima caratterizzata da una forza di contrapposizione con pieno mandato di “full combact”, che separi le forze combattenti coinvolte nel conflitto imponendo un reale cessate il fuoco e obbligando i contendenti a sedersi al tavolo della pace monitorato e presieduto dalla Comunità Interazionale in veste di arbitro super partis.

La seconda caratterizzata da un intervento offensivo contro una fazione belligerante o governo che deliberatamente commetteunilateralmente crimini contro l’umanità o tenti di attuare un genocidio al fine di provvedere alla destituzione (e al successivo processo) di una dirigenza che si è posta fuori dai limiti dell’Umanità per imporre un dominio politico con il ferro e il fuoco. La seconda tipologia di intervento è stata applicata durante la guerra civile in Jugoslavia nel 1999 e in Libia nel 2011.

Qualcuno potrebbe obiettare che un intervento militare attuato in una forma o nell’altra, possa creare una situazione di conflitto estesa con il coinvolgimento diretto di diverse potenze regionali e internazionali, come nel caso della Siria. Non dimentichiamoci che l’Etiopia oltre ai suoi partner diretti (Afwerki e dirigenza fascista Amhara) gode della protezione della Russia, Cina, Turchia e delle monarchie medioevali della Penisola araba: Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita.

L’obiezione è pertinente e non può essere sottovaluta ma apre un dilemma difficile da risolvere. È meglio intervenire, consapevoli dei rischi di estensione del conflitto, o assistere al completamento di un genocidio?

Qualunque sia la soluzione migliori per risolvere questo dilemma, resta un dato di fatto. La risposta umanitaria di per sé non è in grado di fermare un genocidio, così come non sono in grado gli appelli alla pace e le sanzioni economiche. Solo l’uso della forza (progressiva e controllata) può risolvere la situazione dinnanzi ad un governo che si è volutamente posto al di fuori delle leggi e della morale internazionali. Una volta sconfitti i dirigenti rei di questi crimini devono subire un processo e pene esemplari come fu nel caso del Nazismo nel processo di Norimberga o per le forze di supremazia razziale HutuPower in Rwanda.

Insistere solo su delle richieste significa dar ragione al Ministro Demeke Mekonnen che ha consigliato alla Comunità internazionale di “desistere da queste attività inutili“.

Nota. Questa analisi è frutto di convinzioni del tutto personali non necessariamente condivise dai media con cui collaboro.

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