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RDC: il cannibalismo della guerra

Territori insanguinati
Nelle province orientali della Repubblica Democratica del Congo la violenza è quotidiana, sostrato costante che da decenni fa scempio di vite e speranze. Nell’Ituri, nel Kivu del Nord e del Sud la guerra non è mai finita; sono territori in cui ogni giorno si scontrano eserciti regolari e gruppi di ribelli, milizie più o meno grandi e strutturate che si muovono in una complessissima scacchiera dove si susseguono freneticamente alleanze e tradimenti, rivendicazioni etniche e radicalizzazioni identitarie. Nelle enormi e turbolente province del confine orientale della RDC, le popolazioni sono continuamente insanguinate da agguati, saccheggi e vendette, in un contesto di povertà e malattia che ormai sembrano inestirpabili; è una tragedia che procede come uno stillicidio: lenta e ripetitiva, alimentata di sfruttamento e ingiustizia brutalizzano gli animi e la convivenza.
Tenere nota di ciascun episodio è difficile, sia per il gran numero di violenze, sia per la scarsa copertura giornalistica: spesso non si conosce tutto ciò che avviene, né ci sono sguardi alternativi che possano confermare o approfondire certe informazioni. Considerando la loro estensione territoriale complessiva, le tre province sono grandi quanto due terzi dell’Italia, con circa 17 milioni di abitanti, distribuiti su un’area geografica con poche strade, spesso impervie e costrette ad attraversare altipiani e montagne. Proprio la natura di questi luoghi, tuttavia, è anche la ricchezza e, va da sé, la maledizione della regione: vi sono infatti numerose risorse minerali, ambientali e fossili, come oro e coltan, per cui è ambita dai confinanti Rwanda, Burundi e Uganda che da oltre 20 anni sostengono ribellioni e milizie in maniera più o meno esplicita.
I disordini e la guerra civile, dunque, permangono da almeno un quarto di secolo, in un’erosione dell’indulgenza che a volte tocca abissi sconcertanti. Lo raccontano in tanti, ma negli ultimi tempi la testimonianza più forte è stata certamente quella del dottor Denis Mukwege, premio Nobel per la pace 2018, che nel suo discorso alla cerimonia di premiazione ha detto:

“Vengo da uno dei Paesi più ricchi del pianeta. Eppure, il popolo del mio Paese è tra i più poveri del mondo. La realtà preoccupante è che l’abbondanza delle nostre risorse naturali – oro, coltan, cobalto e altri minerali strategici – è la causa alla radice della guerra, della violenza estrema e della povertà nella Repubblica Democratica del Congo. […] Il mio Paese viene sistematicamente saccheggiato con la complicità delle persone che affermano di essere i nostri leader. […] Per vent’anni, giorno dopo giorno, all’ospedale di Panzi, ho visto le strazianti conseguenze della cattiva gestione del Paese. Neonati, ragazze, giovani donne, madri, nonne e anche uomini e ragazzi, crudelmente stuprati, spesso pubblicamente e collettivamente, inserendo oggetti di plastica o taglienti nei loro genitali. Vi risparmio i dettagli”.

È in questo contesto spietato e autodistruttivo che si colloca l’assassinio, il 22 febbraio 2021, dell’ambasciatore italiano Luca Attanasio, del carabiniere Vittorio Iacovacci e dell’autista Mustapha Milambo: un contesto che, come ha scritto Antonella Napoli, “è contesa fra bande di terroristi che spadroneggiano al confine tra Ruanda ed Uganda, da miliziani fuori controllo e jihadisti che per sopravvivere perpetrano razzie e atti di criminalità di ogni genere a danno della popolazione locale e di chiunque graviti nella sfera di loro controllo”.

Violenza estrema
In un tale quadro inquietante e desolante, le cronache riportano che il 9 dicembre, nel piccolo villaggio di Lweba, nel Sud Kivu, è stato seviziato e ucciso il maggiore dell’esercito congolese Joseph Nkamihoze. Il luogotenente si trovava in un’ambulanza della Croce Rossa che trasportava un suo superiore all’ospedale di Uvira, sulla costa settentrionale congolese del lago Tanganyika, quando dei giovani civili hanno fermato il veicolo per controllarne gli occupanti. A quel punto sarebbe stato fatto scendere solo Nkamihoze perché, secondo le voci più ricorrenti, sarebbe stato riconosciuto come Banyamulenge, ossia appartenente all’etnia tutsi considerata estranea dai Babembe.
Letteralmente, Banyamulenge significa “Coloro che vengono da Mulenge”, cioè dagli altipiani del massiccio dell’Itombwe, nel Congo orientale a ridosso del confine con Rwanda e Burundi. Si tratta di un gruppo rwandofono insediatosi nell’area durante il XIX secolo, dunque nel periodo coloniale; tuttavia, con la Seconda Guerra del Congo il termine è stato utilizzato in maniera più estesa per i rwandesi che vivono nella RDC e che, vent’anni fa, si organizzarono nel gruppo armato Raggruppamento Congolese per la Democrazia, sostenuto dal Rwanda. Come dinanzi ad un processo di etnogenesi, Banyamulenge è, pertanto, un’espressione controversa, perché alcuni la utilizzano per affermare la propria identità congolese, mentre altri per accusare una tentata usurpazione di territorio da parte di una popolazione di origine straniera.
Come hanno riferito dei testimoni oculari, la morte del militare è avvenuta in un crescendo di ferocia. Il convoglio in cui si trovava Nkamihoze era composto da cinque soldati che, sebbene armati, non sono riusciti ad intervenire per impedire l’omicidio. Il giorno prima, nel vicino villaggio di Tobondo tre civili erano stati uccisi e cinque donne erano state rapite da uomini armati, presumibilmente appartenenti alla milizia Ngumino, che compie violenze nell’adiacente regione di Minembwe, sebbene i suoi membri affermino di proteggere la comunità Banyamulenge. I Ngumino sono alleati dei Twigwaheno e, insieme, si scontrano regolarmente con i Mai-Mai e le Forze Armate della Repubblica Democratica del Congo (FARDC) per il controllo del territorio. In ogni caso, dopo poche ore, forse per ritorsione, nella stessa zona erano stati dati alle fiamme un veicolo e due motociclette che trasportavano cibo per gli sfollati interni Banyamulenge del campo di Bibokoboko e l’indomani, giovedì 9 dicembre, nel villaggio di Lweba una manifestazione di protesta si è trasformata in posto di blocco quando è giunta l’ambulanza e, in un attimo, in tribunale popolare: sebbene in quel momento vestisse abiti civili, il militare delle FARDC è stato trascinato fuori e linciato, poi tramortito e bruciato vivo.

Come in un abisso di cui non si raggiunge mai il fondo, la violenza compiuta a Lweba avrebbe avuto un ulteriore livello di efferatezza, riferito dal collettivo di giornalisti “SOS Médias Burundi” che, citando membri della famiglia della vittima, ha scritto che alcuni tra i partecipanti al linciaggio, al colmo della rabbia e del delirio, avrebbero anche mangiato parti del corpo del maggiore Nkamihoze.
Nessun’altra fonte fornisce conferma o ulteriori informazioni, quindi, ad oggi, resta un’accusa non supportata da prove, anche perché sabato 11 dicembre una delegazione delle FARDC ha avviato un’inchiesta a Lweba, riferendo che il commilitone è stato ucciso unicamente per la sua appartenenza etnica, dunque come rappresaglia ad opera di giovani del posto chiamati “Bazalendo”, insieme a dei militanti Mai-Mai.

Ricorrenti accuse di cannibalismo
Come spiega l’antropologa Antonella Modica, quello del cannibalismo “è il tabù che più spaventa l’uomo poiché mette in pericolo non solo l’individuo in quanto ipotetica vittima ma la prosecuzione stessa delle specie”. L’Occidente “civilizzato” è da sempre interessato dal cannibalismo, considerando tale pratica come un confine netto tra l’umanità e la bestialità, perché considera il cibarsi volontariamente di un proprio conspecifico come un atto ripugnante, meschino e privo di qualunque logicità. Il cannibalismo, dunque, è ritenuto una forma estrema di regresso, un’accusa rivolta ad esseri umani ritenuti simili a bestie, privi delle elementari regole della convivenza sociale. La paura del cannibalismo è cioè spiegabile con il timore degli “estranei” e con la necessità di distinguere la propria “civiltà” dall’altrui “barbarie”.
Ma cosa sappiamo di concreto del cannibalismo e, in particolare, dell’antropofagia?
Come mostrano gli etnologi, ne sono esistite e ne esistono tre forme principali: il cannibalismo alimentare, che avviene solo in casi di necessità estrema; il cannibalismo rituale, che consiste nel mangiare parti simboliche del corpo umano a scopo magico o religioso; infine lo pseudo-cannibalismo, che è connesso al culto dei morti, cioè degli antenati.
Pratiche cannibaliche sono attestate ovunque nel tempo e nello spazio, compresa l’Africa, in particolare nell’area congolese, sia in fase precoloniale che successivamente, ma soprattutto in occasione di guerre locali e regionali. Quando il cannibalismo avviene sui nemici, prende il nome specifico di “esocannibalismo”: si catturano o uccidono persone estranee e le si trasforma in cibo rituale, perché ingerire parti del nemico significa assorbirne il valore, le qualità e l’energia, impedendo allo spirito nemico di vendicarsi o nuocere al gruppo. Siccome, però, è una pratica così controversa, è necessario sottolineare che il cannibalismo è spesso usato come mezzo di propaganda per screditare gli avversari. Pertanto, l’informazione dei presunti atti di cannibalismo a scapito del maggiore Nkamihoze va presa con cautela e consci che la sua verifica è pressoché impossibile. Quel che conta, tuttavia, è che la notizia sia circolata, cioè che in un determinato contesto sia stata ritenuta una eventualità possibile.
In effetti, negli ultimi vent’anni le province orientali della RDC sono state ripetutamente al centro di accuse del genere. Il caso più eclatante si ebbe nel gennaio 2003, quando l’ONU aprì addirittura un’inchiesta sulle accuse di cannibalismo e altre violazioni dei diritti umani perpetrate nell’autunno del 2002 dai ribelli del Movimento per la Liberazione del Congo (MLC) tra l’Ituri e il Nord Kivu, nei pressi della città di Beni. In particolare, la denuncia riguardava violenze sugli Mbuti, più noti come “pigmei”, “costretti a mangiare le proprie orecchie, gli alluci e altre parti del corpo”, come dichiarò il vescovo della città, Melchisédec Sikuli Paluku. Dopo alcuni mesi di indagine, gli inquirenti appurarono che le vittime avevano subito stupri, esecuzioni sommarie ed extragiudiziali, saccheggi e massacri di bestiame, ma non riuscirono ad acquisire prove sulle notizie di cannibalismo. Nel settembre del 2004, tuttavia, emerse che tre esponenti dell’etnia Mbuti, accusatori dei miliziani dell’MLC, avevano chiesto perdono per “i danni arrecati al Movimento e al suo leader, Jean-Pierre Bemba”, poi diventato uno dei quattro vicepresidenti del Paese durante la presidenza di Joseph Kabila. Successivamente, nel 2008 Bemba fu arrestato vicino Bruxelles in base al mandato di arresto emesso dalla Corte Penale Internazionale proprio per le accuse risalenti al 2002; il processo cominciò nel 2010 e, dopo una prima condanna nel 2016, dopo due anni, nel 2018, fu assolto in appello.
Qualunque sia la verità, resta che la comunità Mbuti fu decimata da cinque anni di guerra e un decennio di disordini: su una popolazione di 600.000 persone, una su dieci sarebbe morta durante il conflitto a cavallo del millennio, che nel suo complesso ha causato 3 milioni e mezzo di morti.
Dopo un decennio, nel 2012, l’accusa di cannibalismo venne da Goma, capitale del Nord Kivu, dove in una notte di dicembre cinque persone furono linciate dopo un regolamento di conti, i cui cadaveri furono bruciati e, stando ad un video raccolto da “France 24”, i cui brandelli furono mangiati da alcune persone sotto effetto di alcool e droga. L’anno dopo, nel settembre 2013, l’accusa di cannibalismo si levò a Pinga, sempre nel Nord Kivu, stavolta ad opera della milizia NDC (Nduma defence of Congo) di Tabo Ntaberi, alias Cheka: in questo caso, i combattenti che controllavano la zona uccidevano gli intrusi e mutilavano i loro corpi, praticando il cannibalismo, secondo le voci, soprattutto contro i miliziani dell’APCLS (Alleanza dei patrioti per un Congo libero e sovrano) e delle FDLR (Forze democratiche per la liberazione del Rwanda).

Costruzione di alterità e identità
Come sostiene l’antropologo Monder Kilani, “l’orizzonte cannibale […] è un elemento costitutivo della cultura, di tutte le culture in diverso grado”, cioè produce pratiche sociali, culturali, politiche e religiose, ma soprattutto è inquadrabile come un meccanismo capace di costruire identità e alterità, si delimitano i confini del “noi” dagli “altri”, degli “uguali” dai “diversi”: con l’atto cannibalico ci si presenta e ci si rappresenta, si costruiscono modelli di relazione con gli altri, con la vita e con la morte. È, ovviamente, una pratica estrema che si realizza o è pensabile solo in condizioni estreme come quelle della guerra permanente, della miseria inestirpabile e dello sfruttamento strutturale. In “Tristi Tropici”, Claude Lévi-Strauss ritiene che l’antropofagia non sia dovuta a necessità alimentari, bensì a una “fame violenta [di cui] nessuna società è moralmente protetta; la fame può spingere gli uomini a mangiare qualsiasi cosa”.
Quella fame è dovuta a ingiustizia e abbandono, umiliazione e prevaricazione; tuttavia, ha un corollario: a prescindere dalla sua veridicità, infatti, l’accusa di cannibalismo intende aggiungere un di più all’orrore, anche quando riguarda soldati spietati e miliziani violenti o folle inebriate di vendetta, una quota di disgusto fatto di crudeltà, razzismo e credenze soprannaturali che porterebbero a fare scempio dei corpi, oltre che delle vite. In altre parole, l’accusa di cannibalismo è la più infamante, quella che permette una stigmatizzazione concreta del diverso, all’interno di un processo che, al contempo, produce sia alterità che identità.
La violenza dell’iniquità e dello sfruttamento, che da decenni insanguina le province orientali congolesi, devasta tutto: vite e speranze, relazioni e sguardi, sprofondando quel che rimane dell’umano in un’infinita catena di vessazioni e rivalse. È una fame che divora se stessa, come una morte che non muore e una guerra che non passa; è un abisso che non consente neanche quel che auspicava Wislawa Symborska dopo ogni guerra, ossia che qualcuno ripulisca, che possa “spingere le macerie ai bordi delle strade per far passare i carri pieni di cadaveri”.

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