vai al contenuto principale

Il mio nome è Meriam. Il processo e la condanna in Sudan

Continua la pubblicazione del libro best seller di Antonella Napoli, direttrice del nostro magazine,  per i lettori di Focus on Africa.
Dopo l’introduzione pubblicata la scorsa settimana inizia il racconto.

Buona lettura.

I CAPITOLO

 

Meriam entrò nell’aula a passo lento. Le catene le mordevano le caviglie, già lacerate nel corso della lunga detenzione, e producevano un rumore sinistro, simile a un lamento. Ma avanzava a testa alta, con uno sguardo fermo e deciso.
Quando sedette al banco degli imputati lanciò un’occhiata verso lo scranno più alto, dove si ergeva la figura di colui che da lì a poco avrebbe deciso la sua esistenza. Il giudice del tribunale periferico di Khartoum, Abbas Mohammed Al-Khalifa, aveva un’espressione arcigna, che confermava la fama di magistrato intransigente e severo, il più duro della capitale.
«Adraf Al Hadi Mohammed Abdullah,» chiese in tono sprezzante, chiamandola con il suo nome islamico, «cosa hai da dire?»
«Il mio nome è Meriam, vostro onore, e non ho nulla da aggiungere a quanto ho già dichiarato» rispose con una voce calma e chiara. «Sono un’ortodossa praticante
e non ho commesso apostasia, visto che non ho mai conosciuto altra religione che quella cristiana.»
Sapeva che avrebbe potuto pagare un prezzo altissimo per quelle parole, ma la voce della coscienza era troppo forte per tacere. Ormai aveva imparato a domare la paura, a sopportare minacce e umiliazioni, era quasi abituata. D’altra parte il processo aveva preso una brutta piega sin dal principio, non era che il culmine di una persecuzione cominciata alcuni mesi prima, quando dei presunti parenti del padre, di cui Meriam non ricordava neppure il volto, l’avevano denunciata perché, pur essendo musulmana, aveva sposato un cristiano. Sostenevano che il suo vero nome fosse Adraf e l’avesse cambiato dopo avere abbandonato la famiglia ed
essersi convertita. I suoi avvocati avevano chiesto al giudice di ascoltare alcuni testimoni che parlassero in sua difesa, pronti a smentire la tesi degli accusatori, ma la richiesta
non era stata accolta. Nel corso di tutto il dibattimento non era stata ammessa nessuna testimonianza a suo favore.
«Ti sono state concesse settantadue ore per tornare all’islam, ma non hai voluto accettare la benevolenza dei tuoi fratelli musulmani. Per questo meriti di essere impiccata.»
Le parole del magistrato riecheggiarono nell’aula e rimbalzarono sui presenti atterriti dei presenti.
Meriam si voltò verso gli avvocati, poi guardò Daniel.
Restò impassibile, mentre il volto di suo marito si riempiva di lacrime. Lei no, non riusciva a piangere. Osservava il giudice, lo guardava dritto negli occhi.

* * *

Roma, 15 maggio 2014. Lo squillo inconfondibile di Skype irruppe nel bel mezzo di una conferenza sul razzismo alla quale stavo partecipando. Non avevo silenziato l’iPad appositamente, aspettavo quella chiamata con un misto di speranza e preoccupazione.
Khalid Omer Yousif, un attivista di Sudan Change
Now, era appena uscito dal tribunale di Khartoum, dove aveva assistito alla lettura della sentenza. La sua voce non riusciva a nascondere una profonda delusione: Meriam Yehya Ibrahim Ishag, la ventisettenne cristiana, incinta e madre di un bambino di un anno e mezzo, arrestata per apostasia pochi mesi prima, era stata condannata a morte.
Da alcune settimane avevamo avviato una mobilitazione che piano piano aveva raggiunto giornali, televisioni, social network e istituzioni, e ci eravamo battuti nella speranza che il giudice non procedesse con le accuse e disponesse la scarcerazione.
Era accaduto l’esatto contrario.
Nei tre giorni di sospensione del processo non era maturata, come auspicavamo, la “coscienza” che si stesse compiendo un atto aberrante, che non aveva nulla a che fare con la legge e men che meno la giustizia.
Anzi, di fronte al rifiuto dell’imputata era stato emesso un giudizio duro, durissimo.
Fu una doccia gelata, una botta tremenda, alla quale reagimmo con tutta la rabbia e la determinazione di cui eravamo capaci. Tempo qualche click e rilanciammo la campagna di solidarietà in favore di Meriam e di denuncia verso ciò che stava capitando a Khartoum.
Italians for Darfur, l’associazione che presiedevo, nata nel 2006 allo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni sullo stato dei diritti umani e la loro violazione nel continente africano, e Amnesty International sottoscrissero una petizione e avviarono una raccolta di firme da inviare al presidente sudanese, Omar Hassan Al-Bashir, perché chiedesse la sospensione della sentenza e concedesse la grazia.
Un tam-tam virale invase la rete. La pagina Facebook raggiunse oltre un milione di contatti in pochi giorni. Attivisti di tutto il mondo, blogger e semplici cittadini rilanciarono la notizia. La storia di Meriam, una storia lontana e al tempo stesso vicina, che riguardava sia lei sia tutti noi, il nostro modo di essere, relazionarci e vivere la spiritualità, conquistò le
prime pagine dei giornali e i titoli dei notiziari. L’indignazione fu globale e la reazione del governo sudanese, imbarazzato e preso in contropiede, pressoché immediata.
Abu-Bakr Al-Sideeg, un portavoce del ministero degli Esteri, fu il primo a intervenire. Alla tv di stato dichiarò che il Sudan era impegnato a tutelare la libertà religiosa, come previsto dalla Costituzione, e lo avrebbe fatto anche nel caso di Meriam. Poche ore dopo il presidente del parlamento, Fatih Adam Al- Din, minimizzò la condanna, sostenendo che si trattava
solo del primo grado di giudizio e che la campagna internazionale a favore della donna puntava  in realtà, a distorcere l’immagine del paese e del suo sistema giudiziario.
Quelle parole, insieme alla pressione mediatica che non accennava a diminuire, ci diedero forza e fiducia.
Capimmo di avere intrapreso la strada giusta e che, dopo una notte lunga troppi mesi, la luce della speranza aveva ripreso a brillare.
Anche gli avvocati della ragazza, con cui eravamo costantemente in contatto, ritenevano che il
giudizio finale non potesse che mutare. Mohaned Mustafa Al-Nour, coordinatore dello staff legale del Sudan Justice Center, di cui facevano parte Mohamed Abdelnabi, Osman Mubark, Thabiet Al-Zubier e Ali Al-Sherif, non aveva dubbi: il giudice Al-Khalifa aveva forzato l’applicazione della sharia e aveva contravvenuto alle indicazioni della carta costituzionale,
che prevedevano e tutelavano la libertà di culto. In più, diceva, il governo non aveva alcun
interesse a che la giustizia procedesse su una linea tanto intransigente, visto che non avrebbe fatto altro che screditare il paese a livello internazionale e
fomentare la tensione all’interno dei confini.
L’eventualità di un processo di secondo grado, nel quale Meriam non fosse giudicata in base alla legge coranica, e che perciò non prevedesse la pena capitale, prese piede giorno dopo giorno. Ma se, in teoria, il giudice in appello avrebbe potuto benissimo recepire le indicazioni in materia previste dalla Costituzione, cambiando la sentenza e il destino della ragazza, non era affatto scontato che lo facesse.

Torna su