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Cooperazione in Uganda. La mia vita di tutti i giorni a Kitgum dopo 2 mesi

Dopo due mesi dal mio arrivo a Kitgum, cominciavo a sentirmi a mio agio. Rimaneva la tensione, per me positiva, di affrontare ogni giorno un’avventura nuova, sebbene fossero passati appunto due mesi, e, per quanto fosse subentrata una certa routine nelle cose che facevo e nelle persone che incontravo, ogni giorno era diverso dall’altro.

La mattina, dopo una doccia fredda – l’acqua calda era disponibile molto raramente – prendevo la motocicletta di servizio, indossavo un k-way e mi recavo in ospedale, dove si svolgeva il briefing mattutino delle 8. A quell’ora c’erano 17-18 gradi circa e faceva quasi freddo andare in motocicletta, ma io mi godevo il mio giretto prima di arrivare in ospedale, fotografando con gli occhi la terra rossa che percorrevo in moto, i primi colori delle persone che si muovevano per le strade polverose e piene di buche, allungando di tanto in tanto il mio tragitto verso l’ospedale, affinché quelle immagini dense di colori e profumi di Africa rimanessero scolpite nel mio cuore.

Arrivato in ospedale, i parenti dei pazienti ricoverati, ancora presi dalle prime faccende del risveglio, ora rispondevano al mio saluto di buongiorno, chi più convintamente e chi per educazione. Dopo i primi tempi in cui quasi nessuno mi salutava, per me fu un grande successo, ma soprattutto cominciavano a vedermi come uno di loro. Io certamente mi sentivo parte integrante di quel popolo. Che bella sensazione, che mi commuove ancora oggi.

Dopo il briefing, andavo nel mio reparto, dove trovavo i pazienti, che potevano alzarsi dal letto, già seduti su due panche all’esterno, gli uomini tutti da una parte e le donne tutte dall’altra. Si sedevano a uno a uno davanti a me e, con l’aiuto di un’infermiera che traduceva in inglese quello che i pazienti mi dicevano, completavo le prime visite.

Quindi facevo con Francis il giro dei pazienti allettati, al termine del quale rivedevamo e aggiornavamo le terapie, insieme anche alla caposala. Quest’ultima mi trattava ormai quasi allo stesso modo con cui si rivolgeva a Francis.

Verso le 11 del mattino andavo nell’ambulatorio di medicina generale e, terminato il mio giro, passavo in radiologia, dove mi facevo consegnare le prime lastre del torace pronte di tutto l’ospedale, che poi discutevo, se era il caso, con i miei colleghi degli altri reparti e soprattutto con Francis.

Con Francis era diventato divertente e stimolante vedere e discutere alcune lastre del torace. I casi di polmonite e di tubercolosi erano all’ordine del giorno nel mio reparto, ma in qualche caso le lastre stesse – che erano molto rudimentali –  non aiutavano a capire chiaramente se fosse una polmonite o una tubercolosi. Francis aveva visto migliaia e migliaia di lastre e lui stesso aveva in passato avuto una tubercolosi polmonare, come la maggior parte di chi aveva lavorato o lavorava nel mio reparto. Così iniziava con Francis una discussione aperta, rispettosa da parte di entrambi e a tratti appassionante sulla diagnosi polmonare prevalente. E debbo riconoscere che più di qualche volta ebbe ragione lui, soprattutto sulle diagnosi di tubercolosi polmonare, che, vi assicuro, con quelle lastre non era assolutamente semplice. Io, poi, mi “rifacevo” sugli aspetti clinici, sui quali Francis mi dava carta libera e, come lui stesso candidamente ammetteva sorridendo, “non c’era competizione possibile”.

Il pomeriggio tornavo in ospedale per rivisitare, con o senza Francis, e qualche volta con la caposala, i pazienti che non stavano bene, e per visitare i pazienti che nel frattempo erano riusciti a farsi ricoverare. Dopo di che, con la mia motocicletta, mi andavo a fare il mio giro quotidiano del mercato, come ho già raccontato, pregustando colori, odori e voci dell’Africa e godendomi la mia pannocchia abbrustolita, la mia birretta e una sigaretta, guardando un panorama che ho ancora negli occhi.

Stava andando tutto per il meglio, quando mi comunicarono che i ribelli del Lord’s Resistance Army, che si opponevano al regime del Presidente Museveni, capitanati dal famigerato quanto violento Joseph Kony, avevano iniziato le loro incursioni notturne che mettevano a rischio le donne e i bambini del posto e, in qualche maniera, sebbene molto meno, anche noi espatriati.

Ma vi racconterò quello che successe nella prossima puntata.

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