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Sudan, un anno fa il golpe. Potere resta in mano ai militari. Migliaia in piazza

In Sudan un anno fa, oggi, l’esercito rovesciava il governo del primo ministro Abdalla Hamdok, contravvenendo alla Dichiarazione costituzionale sottoscritta il 16 agosto del 2019 e minando le aspirazioni democratiche del popolo sudanese.
In questo cupo anniversario, che segna 12 mesi di potere della giunta del generale Abdel Fattah al Burhan, il pensiero va al popolo sudanese che continua a chiedere libertà, pace e giustizia. Anche oggi in migliaia sono scesi in strada per manifestare contro il Consiglio sovrano che continua ad annunciare elezioni senza mai stabilire una data. La repressione non è tardata con l’uso di gas lacrimogeni. Molti feriti da proiettili e due vittime a Khartoum nord.
La società civile vuole un governo democratico che onori coloro che sono morti mentre perseguivano l’ obiettivo di ottenere democrazia e libertà durante le rivolte del 2019 che portarono alla caduta del regime del presidente dittatore Omar Hassan al-Bashir.
Il popolo sudanese continua a essere irremovibile nell’aspirazione a un governo civile che abbia rispetto della sua dignità e che risponda ai suoi bisogni.
Sono anche riprese azioni giudiziarie che mostrano chiaramente il volto di questo regime, a cominciare dalle condanne a morte per adulterio. Almeno due sono state emesse da giugno ad oggi nei confronti di una giovane di 20 anni nella città di Kosti, nel sud di Khartoum, e una trentenne in Darfur
La continua volontà dei manifestanti sudanesi, spesso di fronte alla repressione violenta da parte delle forze di sicurezza, di manifestare a sostegno della fine del governo militare è un esempio per tutti quei popoli oppressi da regimi antidemocratici.

Le speranze che l’iniziativa diplomatica promossa dagli Stati Uniti possa trovare una via di uscita dalla crisi politica del Sudan sono esigue.
Al momento i presupposti affinché si possa porre fine al governo di Burhan  per ripristinare la transizione democratica del paese sono alquanto debolì.
Ma l’iniziativa di pace messa in atto da Nazioni Unite, UA e IGAD prosegue la sua opera di esortazione nei confronti degli attori sudanesi a dare priorità al coinvolgimento costruttivo di tutte le parti in conflitto nel dialogo.
Servirà tempo per raggiungere un accordo su un nuovo quadro di transizione e un governo a guida civile per riprendere e portare avanti lil percorso democratico interrotto.
Il raggiungimento di un nuovo esecutivo è l’unica chiave che può sbloccare la ripresa dell’assistenza internazionale.
Come fanno sapere gli Stati Uniti, che con la firma degli”accordi di Abramo” avevano posto fine alle sanzioni nei confronti del Sudan e lo aveva rimosso dalla lista dei paesi che sostengono il terrorismo.
”Siamo pronti a utilizzare tutti gli strumenti a nostra disposizione contro coloro che cercano di far deragliare il progresso verso la transizione democratica del Sudan” ha dichiarato il Segretario di Stato statunitense “Come abbiamo fatto un anno fa, continuiamo a non riconoscere il governo militare e siamo con il popolo sudanese nelle sue richieste di libertà, pace e giustizia”.
Nonostante la grave crisi economica del Sudan, le pressioni internazionali non sembrano per ora sortire effetti. Democrazia in cambio di sostegno economico non sembra un patto possibile per i generali al potere.
Anche perché c’è chi al business con i vertici del Paese non ha mai rinunciato, come dimostrano i saldi rapporti tra Khartoum e Mosca e i continui scambi commerciali con Emirati Arabi, Turchia e Cina.

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