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Sudan. Il rischio di uno “scenario libico” per il paese

A più di sette mesi dallo scoppio dei combattimenti tra l’esercito sudanese comandate dal generale Abdel Fattah al Burhan e le RSF (Forze di supporto rapido), che hanno causato circa 9000 morti e 5,6 milioni di sfollati interni, il paese sempre più instabile, è al limite del collasso.

Sudan. “I combattimenti continui potrebbero portare ad alcuni scenari terrificanti, tra cui la divisione”, afferma Khaled Omar Youssef, portavoce delle Forze della Libertà e del Cambiamento.

Le divisioni etniche e la militarizzazione di intere aree del Sudan, sta rendendo sempre più profonde le fratture sociali del paese, con le Rsf che controllano gran parte di Khartoum e del Darfur e con l’esercito sudanese che invece ha il pieno controllo della parte settentrionale e dell’est.

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Abdel Fattah al-Burhan
Photo Credit: Sudan TV

La particolarità è piuttosto evidente soprattutto all’interno delle Forze di Supporto Rapido comandate dal generale Mohamed Hamdan Dagalo, noto anche come Hemedti, ex vicepresidente del paese.

Come Hemedti molti appartenenti alle RSF provengono dal Darfur o dal Ciad, un gran numero di essi appartengono alla popolazione nomade araba Baggara (Hemedti proviene dalla tribù Mehriya del sottoclan Awlad Mansur), hanno radici comuni: i più anziani hanno combattuto nella guerra del Darfur, sono stati armati fino ai denti dal governo sudanese di Omar al-Bashir per combattere per procura l’Esercito di liberazione del Sudan.

Una storia che per essere ben compresa pretende un piccolo salto nel tempo.

Il taglio caratterizzante delle milizie è l’appartenenza a popolazioni di origine araba; lo stampo razzista, legato al panarabismo e profondamente violento nei confronti delle altre popolazioni non arabe va inquadrata nelle radici che tali milizie hanno nella Tajammu al-Arabi, la milizia tribale sudanese e organizzazione politica araba sudanese che operava nel Sudan occidentale e meridionale durante la fine degli anni ’80, sponsorizzata principalmente dal leader libico Muammar Gheddafi, sullo stampo delle forze mercenarie libiche che operavano nel Sahel durante gli anni ’70 e ’80.

Queste “unità di prima linea” o Murahleen, non erano composte da predoni a cavallo che attaccavano i villaggi del Darfur del sud per saccheggiare oggetti di valore e fare schiavi.

I Murahleen sono stati i precursori di quelli che divennero poi i “Janjaweed“, miliziani a cavallo saliti alle cronache per gli eccidi di massa di civili appartenenti a popolazioni non arabe (principalmente Dinka e Nuba) durante la seconda guerra civile sudanese.

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Nour, 25 anni, di El Geneina dopo essere stato curato dalle équipe mediche di MSF nell’ospedale di Adré (Mohammad Ghannam / MSF)

Non è un caso che la storia si ripeta e che le voci che si sono rincorse -nell’attuale contesto bellico- abbiano trovato riscontro nei fatti. E’ il 26 giugno 2023, la guerra è ormai scoppiata da due mesi e mezzo e le notizie che giugno da El Geneina, nel Darfur occidentale, riportano notizie raccapriccianti di omicidi mirati e di massa di civili appartenenti all’etnia Masalit.

Dagli eccidi di massa alla pulizia etnica il passo è stato breve. Lo stesso inviato delle Nazioni Unite per il Sudan, Volker Perthes ammetteva gli attacchi contro i civili basati sull’ordine etnica, commessi da milizie arabe, che accertati avrebbero potuto costituire crimini contro l’umanità.

Migliaia di civili sono stati sequestrati, uccisi in strada, le donne prese di mira e violentate mentre cercavano di raggiungere a piedi il confine con il Chad.

Una situazione che ha iniziato a precipitare sin dal 14 giugno, con l’uccisione del governatore del Darfur Occidentale, Khamis Abbakar, avvenuta all’uscita degli studi televisivi da dove aveva appena denunciato a reti unificate il “genocidio” in atto ed aver accusato pubblicamente le forse RSF, chiedendo protezione alla comunità internazionale.

Il 20 giugno, Radio Dabanga, storica emittente regionale, ha pubblicato un report dettagliato delle conseguenze dei combattimenti, presentando numeri da capogiro, tanto da portare le agenzie internazionali e le autorità locali a parlare di “genocidio in stile Rwanda“.

Alla fine del mese di Ottobre, i morti nel Darfur potrebbero aver raggiunto quota diecimila, anche se le stime sono ritenute -ahimè, ndr – al ribasso.

Non stanno solo cercando Masalit, ma chiunque sia nerohanno detto a Reuters numerosi rifugiati in Chad.

Pulizia etnica nel Darfur. Ad El Geneina migliaia di corpi sulle strade

A Novembre queste segnalazioni, le notizie riportate dai rifugiati trovano riscontro sul campo: gli sfollati nel Darfur hanno raggiunto quota 1,5 milioni, mentre le RSF hanno diramato un comunicato con il quale rivendicano ormai il controllo della regione e soprattutto di tutte le basi militari presenti.

Nel mentre Abdel Fattah al Burhan e l’esercito regolare si sono ritirati a Port Sudan. Da qui nascono i timori di una divisione e di dinamiche simili a quelle che vediamo in Libia, con una divisione del territorio piuttosto netta, la presenza di più governi e il tentativo delle parti che si affrontano sul campo di intestarsi l’onore di rappresentare il paese.

La suddivisone del paese. La rovina del paese.

E’ vero, Hemedti e le RSF ormai controllano gran parte del Sudan occidentale e meridionale un’area a loro congeniale, un territorio ben conosciuto, nel quale le reti di potere, quelle sociali legate ai clan e quelle familiari hanno il loro peso.

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General Mohamed Hamdan Dagalo |
Photo Credit: Yasuyoshi Chiba/AFP via Getty Images

La conoscenza della regione, la coesione delle milizie incardinate nelle Forze di supporto rapido (legate appunto da legami di appartenenza etnica),  la presenza delle miniere d’oro controllate da tempo proprio dalle RSF, i rapporti con alcuni attori internazionali come gli Emirati Arabi Uniti e la Russia, sono fatti da ascrivere tra i punti di forza dell’ex vicepresidente.

D’altro canto Buhran ha mantenuto il suo ruolo di capo di stato “de facto” agli occhi della comunità internazionale, continua a intrattenere rapporti molto stretti con l’Unione africana e con la Lega Araba, partecipa ai vertici delle Nazioni Unite, intrattiene relazioni diplomatiche piuttosto strette con molti dei suoi alleati storici, come Egitto ed Arabia Saudita.

La grandezza del paese potrebbe rendere questa suddivisione piuttosto verosimile. Sebbene il controllo del Darfur e della capitale Khartoum potrebbe far pensare ad un facile controllo almeno delle direttrici tra le due regioni, bisogna tenere a mente che la distanza tra la capitale e El Geneina, nel Darfur occidentale, è di 1400 km, una distanza colossale da coprire per delle truppe, la stessa che vi è tra Roma e Parigi; come del resto occorre rammentare quanto sia grande il Darfur, che con i suoi 493.180 km² è grande poco meno dell’intera Francia.

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Una guerra con fronti così ampi sarebbe una sfida logistica colossale, impossibile per delle truppe come quelle che si stanno affrontando oggi sul campo. Intere aree del paese sono un campo aperto ad attacchi aerei, l’occupazione della sola capitale potrebbe non avere questo grande peso se tagliati fuori dagli hub logistici sul Mar Rosso.

Tutte queste considerazioni ci portano a pensare che una vittoria di una parte sull’altra è – ad oggi – quantomeno impossibile e che una stasi prolungata del conflitto, caratterizzato da un riaccendersi ad intermittenza di scontri piuttosto localizzati seppur violenti possa portare Buhran ed Hemedti ad accontentarsi del controllo del proprio territorio ed alla rivendicazione delle proprie istanze e dei propri interessi.

Se poi a rimetterci è il paese, beh, questa è un’altra storia, che non fa storia.

Su tutto, il fallimento dei colloqui e delle mediazioni diplomatiche.

Nonostante gli sforzi profusi dagli organismi sub-regionali (Au, IGAD, Lega Araba) e quelli internazionali (Usa, Onu, Arabia Saudita, UE), ad oggi non si è trovata una via di risoluzione diplomatica del conflitto.

Occorrerebbe forse mettere in campo un nuovo approccio che consideri le reali dinamiche di potere sul campo – questioni politiche, militari e di controllo economico – così come la capacità di attori esterni di influenzare entrambe le parti in guerra verso la fine delle ostilità.

Fino ad oggi tutti gli sforzi sul campo hanno coinvolto, come dicevamo, una serie di di parti con interessi diversi in Sudan e nella regione, come gli stessi Stati Uniti ed Arabia Saudita, seguiti da Egitto, Emirati Arabi Uniti, Qatar ed Etiopia.

Coinvolgere la comunità internazionale presuppone invece che tutti le parti abbiano la stessa credibilità e lo stesso peso, ma è evidente che non è questo il caso. Gli sforzi profusi vengono quindi inghiottiti da una mole di mediazioni ognuna interessata a modo suo, facendo perdere di forza la spinta ad una risoluzione politica del conflitto.

La mancanza di una leadership certa, individuabile e autorevole rende la piattaforma diplomatica debole, poco credibile e ciò lo abbiamo visto con i colloqui ai quali l’una o l’altra parte non ha partecipato.

Niente di nuovo, abbiamo già testato altrove queste dinamiche. Purtroppo sappiamo che non portano a nulla, quel nulla nel quale morte e distruzione la fanno ancora da protagoniste.

 

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