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Niger, intervista a Apsatou Bagaya: un’anticonformista sposata alla fotografia

“Quando sei in contatto con un bambino, devi essere sincero perché il bambino, quando non sei sincero, non si fa coinvolgere. Vado da un bambino che non conosco e gli chiedo di fargli una foto. Se non sono sincera, mi respinge.  Questo è quello che la fotografia mi ha insegnato.” 
Apsatou Bagaya è oggi una delle fotografe più conosciute in Niger per il suo talento nell’immortalare i molteplici volti del suo popolo. La sensibilità e l’energia che emana l’artista sono travolgenti, quanto i suoi scatti, che come dice lei « devono portarti in alto ».
Nata a Zinder da una famiglia poligama, Apsatou viene cresciuta in Benin da una zia e già a 16 anni si trova a vivere da sola e provvedere a sé stessa. Un’infanzia sostanzialmente solitaria dove il vuoto lasciato dalla sua famiglia viene ben presto colmato dall’incontro con la fotografia, di cui farà una vocazione e una ragione di vita.
 Impara il mestiere facendo foto commerciali in un parco giochi  a Cotonou e grazie ad un incontro fortunato si appassiona alla fotografia d’autore. Rientrata in Niger per trovare l’ispirazione decide di sposarsi per far fronte alle pressioni familiari. Abbandona così la fotografia per qualche tempo per dedicarsi alla vita coniugale, ma dopo un periodo di depressione capisce che « rinunciare alla fotografia significa rinunciare a sé stessa ». Così decide di divorziare per continuare quello che per lei non rappresenta solo un mestiere, ma la sua identità. Apsatou è oggi una delle fotografe più affermate in Niger, viaggia in ogni angolo del suo paese per immortalare le storie dei tanti popoli e delle culture che abitano questa terra desertica.  
 
 
Da dove nasce la passione della fotografia nella tua vita?
 

«Ricordo bene come sono entrata in contatto con la fotografia. Bisognerebbe partire da quando, all’inizio, mi sono ritrovata a lavorare come contabile in una ONG internazionale basata a Cotonou, dove avevo completato gli studi.  Ero lì come contabile, ma allo stesso tempo,  facevo un po’ di tutto. È una ONG che fà produzioni video dunque avevamo uno studio di montaggio e alle volte il responsabile della produzione mi chiedeva di dare una mano nello studio. Progressivamente mi è piaciuto, così  mi sono unita al team di produzione. Ho iniziato a connettere i cavi, i mixer, trasportare le luci, etc. Dopo poco ho deciso di licenziarmi come contabile ed iscrivermi ad una scuola di arti visive dove ho conosciuto la fotografia».
Cosa ti appassiona davvero della fotografia? 
«Di questo lavoro quello che mi è piaciuto, quello che mi ha colpito, credo sia l’immagine. Ero molto attratta dalla sua nitidezza. Ho iniziato a capire come si facevano delle inquadrature eccellenti. L’immagine era pulita e il suono impeccabile. Poi nella scuola di arti visive, ho conosciuto la fotogafia. C’è uno studio fotografico dove facevamo ritratti. E anche questo mi interessava. Quello che amavo della foto è la sua istantaneità, la sua immediatezza. Il video è interessante, ma è un processo piuttosto lungo mentre la foto veniva scattata istantaneamente e potevo subito vedere la soddisfazione nel volto di chi mi aveva commissionato il lavoro».
Dove hai iniziato a praticare il mestiere?
 

«Mi sono imbattuta in un’opportunità, davvero una buona opportunità. C’era un parco divertimenti che stava aprendo  a Cotonou, in Benin. Si chiamava Magic Land. Ho saputo dell’apertura due giorni prima e sono arrivata lì. Ho chiesto di vedere il capo e gli ho proposto di fare delle foto solo per l’apertura. Ne abbiamo parlato e ci siamo accordati, ma quello che mi interessava davvero era lavorare allo stand fotografico. Tuttavia gli stand erano molto costosi, 900.000FCFA per un periodo di prova di 45 giorni. Mi son detta che non mi sarei arresa e ho negoziato a lungo con il proprietario per far abbassare il prezzo. Grazie ad un prestito ricevuto da un caro amico sono riuscita ad affittarlo. All’inizio avevo solo una macchinetta fotografica digitale.  Giravo per il parco chiedendo a chiunque « Vuoi fare se una foto a tuo figlio ? »Pian piano mi sono guadagnata la fiducia dei clienti. Perché una cosa mi era chiara fin dall’inizio. C’è solo una cosa da fare : una buona foto. La foto non può che essere buona, non hai altra possibilità. Quindi ho prestato molta attenzione alla luce, all’inquadratura, all’espressione. Il bambino doveva essere bello, presentabile. Quando consegnavo la foto, guardavo la faccia del genitore. Se era felice, era fatta. Ero soddisfatta. Era l’unica cosa che contava.  Nel tempo i clienti conosciuti al parco mi chiamarono a far foto ovunque : cerimonie, uffici, scuole e istituzioni. Cosi,  nel 2010 nacque Apsath Photo, la mia impresa. « Apsath », è cosi che gli amici mi chiamano in Benin».  
Dove hai trovato questa determinazione?
 

«Vengo da una famiglia poligama. Mio padre e mia madre hanno divorziato presto, quindi mia madre era piuttosto povera. Quando ero piccola, mi dicevo che avrei avuto successo perché avrei voluto prendermi cura di lei. Volevo dimostrarle che anche se siamo poveri, la povertà non è la fine. Si può cambiare. Se lavori, se sei onesto, non c’è motivo per cui non dovresti avere successo nella vita. Il talento si sviluppa e si coltiva. È solo una questione di carattere. È una questione di decisione. Questa è sempre stata la mia forza trainante: volevo vedere mia madre felice. Lo volevo anche per me stessa perché credo che sia legittimo avere accesso alle cose di questo mondo e al benessere».
Quando hai iniziato ad interessarti alla fotografia d’autore ?  
 «Nel 2012, grazie a un corso formazione, ho incontrato il fotografo Jean Dominique Bertin. È belga, ed era a Cotonou a fare una mostra. Ho partecipato a una sua conferenza e grazie a lui ho capito che ci si può esprimere attraverso la fotografia. Mi invitò a visitare la sua mostra alla Biennale di Dakar, così ho acquistato un biglietto aereo e sono andata in Senegal senza pensarci due volte. Alla mostra ho scoperto un altro lato della fotografia, la fotografia d’autore. Ho capito che era quello che volevo fare anche io : esprimermi attraverso la fotografia. Dominique mi disse che se era quello che avrei voluto davvero, sarei dovuta tornare a casa mia : « È a casa che troverai l’ispirazione. Qui in Benin, hai combattuto e ti sei affermata, ma è a casa che puoi connetterti al tuo popolo. Dalla tua gente troverai l’ispirazione. Non ho davvero capito cosa volesse dire veramente in quel momento, ma ho pensato tra me e me Perché no?! Mi fido di lui, andrò. »
Come è stato per te il ritorno in Niger, la tua terra?   
« E’ stato un po ‘difficile per me tornare. Avevo appena fatto un reportage per l’Ambasciata del Ghana e ho pensato che potevo concedermi un po’ di tempo. È stato il mio primo viaggio fotografico alla scoperta del mio paese. Ho viaggiato in un camion per due giorni per raggiungere un villaggio Fulani sperduto nel deserto. La gente era semplice, bella e mi hanno accolta come se se mi conoscessero. Tutti volevano parlarmi, raccontarmi i loro problemi. Lì ho iniziato a farmi delle domande e stavo iniziando a scoprire me stessa. Mi sono detta « questa è la mia voce, questo è quello che voglio fare ». La fotocamera può essere utilizzata per avvicinare le persone, poiché le persone si perdono, sono isolate. Avevo la possibilità di farle viaggiare attraverso le mie foto. È così che ho iniziato a interiorizzare ciò che la fotografia può fare. È questo lato umano che mi avvicina alle persone. Credo che sia stato il mio primo lavoro al parco giochi a darmelo. Il fatto di aver lavorato con persone creando legami di fiducia e andando direttamente da loro, senza artifici.  Chiedevo: “Posso fare una foto per tuo figlio?
Ho compreso che la foto poteva avvicinarmi alle persone. Aveva un lato umano molto sviluppato, dove non c’era nessun filtro e nessuna formalità. La fotografia mi ha donato questa semplicità nel raggiungere le persone per incontrarle e crescere in un rapporto reciproco di sincerità. » 
 
E’ stato difficile far accettare alla tua famiglia la tua professione ?
 
« La mia famiglia sa che sono un uccello libero, perché sono cresciuta da sola. Tuttavia, una volta tornata in Niger, a 35 anni, il mio non essere ancora sposata è divenuto un problema enorme per mia madre. Provengo da una famiglia conservatrice dove i miei fratelli e sorelle si sono sposati a 16/18 anni. Io sono stata in grado di avere una vita libera perché sono cresciuta in Benin, dove potevo avere la mia opinione.  Ma io non sono beninese, sono nigerina.  In questo paese il matrimonio è l’unico modo di onorare una donna e di conseguenza la sua famiglia. Di me si era sparsa voce che conducessi una vita dissoluta in Benin e la mia famiglia soffriva di questo. Così ho pensato che se volevo davvero tornare a esprimermi a casa, avrei dovuto prima fare pace con la mia famiglia, tutto qui. Dunque dopo pochi mesi mi sono sposata con un uomo che mi ha presentato mio cugino. Con lui mi sono presto trasferita a Maradi e ho lasciato definitivamente il Benin e la mia impresa. »
 
• Tuo marito ha accettato la tua professione ?
 
« Purtroppo no. Di colpo mi sono trovata a Maradi, il mio guardaroba era cambiato, ero velata, il mio unico lavoro era in sala da pranzo, a cucinare. A Cotonou avevo una vita piena, dinamica, andavo in palestra, al tennis, lavoravo e avevo molti amici.  Così, dopo pochi mesi mi ritrovai a pensare « Che cosa ci faccio qui? » È arrivato così, come uno schiaffo o qualcosa del genere. Avevo bisogno di lavorare, di fare foto. Per fortuna è una professione che posso fare ovunque, cosi iniziò per me una lunga battaglia con mio marito che non ha mai accettato la mia professione. L’unico suo pensiero, e quello della sua famiglia, era di avere un figlio che peraltro non arrivava. Soffrivo e le cose non andavano bene. Ho capito che per far funzionare quel matrimonio avrei dovuto rinunciare alla mia identità. Mi son detta : « Questo riguarda la mia vita. Cosa voglio fare della mia vita? Non si tratta della vita della mia famiglia, si tratta solo della mia ». Cosi dopo tre anni di matrimonio la mia decisione è stata definitiva e senza appello. Ho deciso di divorziare e di sposarmi alla fotografia.
Mi sono ripromessa : sarò una fotografa più che mai, perché  la foto mi ha liberato. Non avevo niente all’inizio e la foto mi ha dato un’identità. Ho potuto creare un’impresa, ho avuto il rispetto in un paese che è casa mia, il Benin. Grazie a questo lavoro, torno a casa e di colpo mi è chiesto di rinunciare a tutto questo. Oggi sono io, ho ripreso la mia identità e l’ho ripresa ancora più forte. È qualcosa che ho ancora faticato a mantenere perché a un certo punto hanno cercato di separarmi da questa. Mi sono riappropriata della mia identità. Oggi sono orgogliosa di essere Apsath Photo. » 
 
Quali sono le difficoltà per una donna nell’esercitare questa professione in Niger ?
 
« Il Niger è molto difficile perché è un ambiente con tradizioni, costumi, culture che si intrecciano, che pesano e che vogliono a tutti i costi trattenerti. È difficile esprimersi essendo un piccolo artista. È difficile essere se stessi perché è come se dovessi lottare per essere chi vuoi essere. Al contrario, è qualcosa che dovrebbe anche essere naturale. Oggi sono molto orgogliosa di fare il mio lavoro. Ho il rispetto della gente e delle istituzioni. Da qualche parte le persone si fidano di me. Sono il canale attraverso il quale loro possono esprimersi. E oggi più che mai mi dico che sono felice per la strada che ho percorso quando mio marito mi chiese di scegliere tra la fotografia e il matrimonio. Sono contenta di aver scelto la foto, perché domani è una cosa che potrei insegnare. Non posso negare me stessa.  Se non puoi prendermi come sono, allora non mi ami abbastanza. Non ho bisogno di stare con te. »
 
Quali sono i tuoi prossimi progetti professionali e personali?  E cosa vorresti vedere nelle tue nuove foto?
 

« Al momento sto lavorando molto sulla schiavitù femminile, un progetto che ho cominciato tempo fà per una ONG internazionale che mi ha portato anche a ricevere dei premi. E’ stato uno dei progetti che più mi ha toccato, mi sono presa del tempo per viaggiare nella zona di Tahuà e incontrare queste ex-schiave. Ho ascoltato queste donne raccontarmi cosa hanno passato, la loro vita, le loro storie e tutto il resto. Inizialmente non avevo definito il mio modo di fotografare. Dovevo fare dei ritratti, ma non sapevo nemmeno cosa avrei fatto. Poi mi sono detta, queste donne hanno sofferto abbastanza, hanno sofferto troppo perché sono ragazze e donne che sono state vendute schiave all’età di 7 anni e che hanno subito tutte le atrocità legate alla schiavitù e allo sfruttament : il lavoro forzato e il concubinaggio con il padrone. Improvvisamente, durante un’intervista mi sono detta : per me rimani una donna come qualsiasi donna.  Sei una donna come un’altra. Quindi  indosserai i tuoi vestiti migliori e verrai a farti fotografare. Voglio magnificarti. E ho chiamato questa serie « Surtout Femmes » (soprattutto donne).  
 
Questo è per dire che anche il modo di avvicinarsi alle persone, il modo di fotografare le persone, l’approccio sono parte della responsabilità come  fotografi.  Non andrò mai a prenderle nella loro miseria, perché questo non è il moi obiettivo. Voglio mostrare il bello, voglio mostrare il bene, voglio che la mia fotografia sia utile e penso che qualsiasi cosa tenda verso l’alto è quello che serve. L’umanità che resta è quello che mi interessa raccontare. »  
 
 

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