vai al contenuto principale

L’esperienza di Catia Mattivi con Emergency contro l’ebola in Sierra Leone

Si chiama Catia Mattivi e di professione fa l’infermiera a Trento all’interno del carcere di Spini di Gardolo, in provincia di Trento, e in passato nel reparto di malattie infettive dell’ospedale Santa Chiara. Un lavoro che le piace ma nel 2014 fa una scelta coraggiosa e molto impegnativa: si offre volontaria per andare in Sierra Leone a curare gli ammalati di Ebola in un ospedale gestito da Emergency.

Invitata dal Museo storico italiano della guerra di Rovereto, in occasione della mostra fotografica Iraq: una ferita aperta del fotografo francese Giles Duley, Catia Mattivi ha raccontato la sua esperienza in Sierra Leone, moderata da Arianna Bazzanella (attivista di Emergency) che ha ricordato come il 90 per cento delle vittime di guerra nei conflitti sono civili. L’organizzazione è stata fondata nel 1994 da Gino Strada e Teresa Sarti e opera in vari paesi e dal 2006 anche in Italia dedicandosi ai migranti e a cittadini italiani in condizioni di povertà. Emergency si è distinta anche nella fase di emergenza sanitaria per il Covid-19 inviando personale medico nelle zone più colpite della Lombardia.

“In prima linea con Emergency. Il racconto di Catia volontaria”, questo il titolo della conferenza, è stato ospitato in un «luogo di riflessione del contemporaneo e non solo archivio della memoria» – come ha spiegato il direttore del Museo Francesco Frizzera. Una testimonianza di grande valore in cui si è colta la determinazione nel voler aiutare malati di Ebola quando ha chiesto di essere inviata come infermiera volontaria in Sierra Leone. «Sono andata a Milano per il colloquio nella sede di Emergency nel 2014 e in quel momento non puoi essere consapevole di quello che ti aspetta ma solo andando sul posto potevo capire cosa accadeva in quel paese. Prima di questo viaggio per Emergency avevo già collaborato nel 2006 in Italia nei poliambulatori per migranti, stranieri ma anche italiani in stato di povertà. Gino Strada aveva deciso di creare un centro allestito a Lakka lontano dall’ospedale chirurgico e pediatrico di Goderich per evitare il contagio. L’unico ancora aperto mentre altri ospedali erano stati chiusi. A causa dell’Ebola erano morti anche dei medici e infermieri e il nostro compito era anche quello di addestrare personale sanitario locale».

La malattia da virus Ebola è una febbre emorragica che colpisce sia gli esseri umani che altri primati ed è stata identificata per la prima volta in Sudan e nella Repubblica Democratica del Congo. I focolai epidemici come quello dell’Ebola si sviluppano nelle regioni tropicali dell’Africa sub-sahariana e a causa della carenza di presidi sanitari e protocolli igienico-sanitari, queste epidemie così gravi si diffondono con più facilità nelle aree più povere ed isolate prive di ospedali moderni e di personale addestrato. «Lavoravamo in condizioni estreme con temperature che andavano dai 32 ai 39 gradi ed era molto faticoso anche perché eravamo vestiti con le protezioni necessarie e questo aumentava il caldo percepito – racconta Catia – specie quando si lavorava dentro la tenda che era stata allestita all’esterno dell’ospedale, dove venivano ricoverati i pazienti. Inizialmente le persone ammalate non si rivolgevano a noi preferendo affidarsi alle cure degli sciamani».

David Quammen nel suo libro Spillover (editore Gli Adelphi) scrive: «La prima emergenza ufficialmente riconosciuta del virus dell’Ebola risale al 1976. In quell’anno si verificarono in Africa, in modo indipendente ma quasi simultaneo, due epidemie a diffusione locale: uno nel nord dello Zaire (attualmente Repubblica democratica del Congo) e una nel Sudan sud occidentale (oggi stato indipendente del Sudan del Sud). L’evento dello Zaire è il più famoso, in parte perché un corso d’acqua locale, il fiume Ebola, ha dato il nome al virus». Quammen la definisce “Epidemia della paura” e spiega che «Gli abitanti dei villaggi colpiti da Ebola, i sopravvissuti, coloro che piangevano un congiunto, o chi non era stato contagiato dal virus, vedevano il fenomeno sotto altre angolazioni, una delle quali comportava la presenza di spiriti maligni. La loro azione si poteva riassumere in una sola parola, che comprende l’intera gamma di credenze e pratiche riscontrate in vari gruppi etnici e linguistici con cui si giustifica spesso la morte improvvisa di un individuo: la stregoneria».

Il virologo Giorgio Guazzetta della Fondazione Bruno Kessler di Trento nella sua conversazione lettura Pandemie al Teatro Portland di Trento a proposito dell’Ebola spiegava che non venivano consentiti i funerali alle vittime per evitare ulteriori contagi suscitando reazioni negative nella popolazione. La testimonianza di Catia Mattivi è poi proseguita coinvolgendo il pubblico: «Anche un medico africano molto esperto nella cura dell’Ebola si era ammalato e questo ci aumentò la paura e la preoccupazione di cosa potesse accadere anche a noi, se un sanitario così attento a gestire i malati si era infettato. Il medico poi fu portato in aereo a Monaco di Baviera per essere curato in un centro clinico specializzato. Io stessa ho subito un incidente bucandomi un guanto con l’ago di una siringa e sono stata isolata in quarantena per la febbre che si era manifestata». L’infermiera dopo aver lavorato ad Lakka nel 2014 è tornata una seconda volta nel 2015 a Goderich insieme ad un’equipe specializzata composta da sanitari provenienti da diversi paesi. Durata 22 mesi l’epidemia ha provocato la morte di 11.300 persone in tutta l’Africa centrale. In Sierra Leone l’ebola è stato debellato definitivamente (14 mila persone infettate e 4mila sono stati i decessi) mentre in Congo ritorna ciclicamente.

Torna su