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Léonora Miano, la voce profonda dell’Africa

Un “nostos” in salsa africana: potremmo definirlo così “La stagione dell’ombra” di Léonora Miano, un romanzo intenso, ai limiti dell’incredibile per ritmo e bellezza di scrittura, in grado di condurci fin nelle viscere più remote del continente nero e, in particolare, di quella regione subsahariana che nell’immaginario collettivo è sinonimo di guerre, fame, miseria e malattie. Chi, anche comprensibilmente, dovesse essere affetto da questi pregiudizi, potentemente instillati da anni di cattiva informazione, è dunque il lettore ideale di una storia che va ben al di là del semplice racconto, volendo essere, a modo suo, un poema breve, un canto dell’epopea di una civiltà precoloniale con radici che affondano nei secoli, uno schiaffo sferrato sul viso di chi ha dapprima devastato quelle terre meravigliose e poi annegato la propria barbarie nei miasmi di un razzismo assolutamente ingiustificabile.
L’opera di Léonora Miano raconta la storia del villaggio del clan dei mulongo che una notte viene devastato da un inendio, nel corso del quale dodici uomini sompaiono. Una delle loro madri, Eyabe, utopista senza eguali, lascia il villaggio alla ricerca del figlio. Il capo Mukano si mette, a sua volta, in viaggio con la sua scorta per chiedere notizie alla regina dei bwele, il clan confinante con cui i mulongo intrattengono proficui scambi commerciali. Anche suo fratello Mutango si allontana ma per mere ambizioni personali: vuole approfittare della situazione e prendere il comando del clan grazie all’aiuto dei bwele. Sarà il tragitto ad aprire gli occhi alle tre figure di viaggiatori, così diverse ma, al tempo stesso, così simili, accomunate da un unico, imponderabile destino, governato da tradizioni antiche, dal culto dei morti e degli antenati, dai riti di purificazione e d’iniziazione, il tutto volto a comporre un mondo dominato dalla magia e dalla superstizione in cui il dio sole cambia nome nel corso della giornata segnando lo scorrere del tempo e le donne si sistemano l’acconciatura prima di andare a dormire per evitare di fare brutti sogni. E sono proprio le donne le protagoniste di quest’epica subsahariana, coloro cui è affidato il compito di cantare le gesta del popolo mulongo per tenerne vivo il ricordo, nel disperato tentativo di difendere la dignità di un mondo ormai prossimo alla scomparsa.
Léonora Miano riesce, pertanto, in un’impresa omerica: spiegarci l’Africa e la sua storia controversa attraverso immagini potenti, paesaggi straordinari, affreschi umani e sociali apparentemente incomprensibili ma, in realtà, efficacissimi per comprendere la realtà africana di oggi, a cominciare dalla diaspora, dalle migrazioni e dal dolore che esse recano con sé.
È un romanzo in cui l’ombra interiore si mescola con le ombre di tante vite che compongono un unico mosaico, con la variegata grandezza di un villaggio in cui regna sovrano il caos e sembra impossibile ristabilire un minimo d’ordine. E sarà proprio questa distruzione creatrice, questa follia collettiva, questa smania, questa vivacità interiore e questa ricerca di sentimenti ancora più profondi a far intrecciare i cammini e a rivelare le verità che mai, altrimenti, si sarebbero apprese.
Per questo, riteniamo che “La stagione dell’ombra” di quest’autrice camerunense, classe 1973, sia uno dei migliori omaggi che siano mai stati compiuti nei confronti della culla dell’umanità. Rivela, infatti, un’Africa straziata ma orgogliosa, intenta a difendere la propria cultura e a battersi contro ogni sopruso. Un’Africa non ancora contaminata, un’Africa forte e resistente, un’Africa in lotta contro la violenza e il tormento che nei seoli l’hanno annientata e oggi continuano ad assoggettarla, fin quasi a ridurla in schiavitù. Quella di Léonora Miano è un’Africa regina, colma d’incanto e di amore per il prossimo, disposta a lasciarsi esplorare a patto che i suoi visitatori nutrano nei confronti di ciascun abitante e persino dei fiori e delle piante il dovuto rispetto.
Scrive l’autrice in uno dei passaggi più significativi: “Mentre cammina, Ebeise si guarda attorno. Il terriccio, abitualmente rosso, a tratti è ancora striato di nero. Nonostante le donne abbiano spazzato per tre settimane di fila, le tracce della disgrazia non se ne vogliono andare. Solo alcune delle cinque o sei capanne che compongono ogni conessione familiare sono state ricostruite. Attorno alle case, non ci sono steccati. Accanto alla porta c’è un palo di legno scolpito piantato nel terreno, che rappresenta il totem di famiglia. Ma le abitazioni in corso di ricostruzione non hanno alcun totem che le protegga. La donna sospira, contemplando qella desolazione. È impensabile che sia accaduta una cosa simile. Eppure è così. Le capanne di fango, sormontate da un tetto di foglie di lende, sono imbrattate di lunghe strisce scure, se non completaente bruciate. Hanno deciso che non le ricostruiranno più così vicine l’una all’altra, perché quella prossimità ha favorito la propagazione delle fiamme: è bastato incendiare il tetto di una capanna perché quella accanto andasse immediatamente a fuoco”. E noi restiamo a contemplare questa scrittura magnifica, mentre il mal d’Africa ci assale, al pari del bisogno di conoscere davvero un universo del quale per troppo tempo non abbiamo capito niente.

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