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La mia esperienza di medico e di uomo in Uganda. Il racconto continua

Come scrivevo nel precedente articolo, dopo un mese e mezzo dal mio arrivo a Kitgum, mi stavo ambientando e questo ha significato anche entrare mani e piedi in una realtà che a volte può essere contraddittoria, ma, sicuramente, è sempre molto dura.

Dovete sapere, per chi non lo sapesse – io lo appresi solo dopo l’episodio che sto per raccontarvi – che nell’Ospedale non Governativo dove lavoravo io, ci si poteva ricoverare solo se avevi qualche soldo e almeno un parente che provvedesse al sostentamento alimentare. Anche solo per farsi una lastra del torace o, a maggior ragione, una ecografia, dovevi avere ancora qualche soldo in più da spendere.

Nelle prime settimane dal mio arrivo all’ospedale, ricoverammo una paziente giovanissima con un quadro di tubercolosi polmonare e di grave denutrizione.

Fu ricoverata in una stanza singola. Ho un ricordo ancora vivido della sua figura minuta e del suo sguardo spaventato e perso. Ogni mattina, al giro visite, entravamo nella sua stanza per visitarla e rimasi stupito di due fatti che si verificarono tutti i giorni, per l’intera permanenza della ragazza in ospedale. Il primo fu che lei non parlva mai, nemmeno con il mio Medical Assistant Francis. Il secondo, che lì per lì sottovalutai, ma che mi lasciava molto perplesso da un punto di vista medico, fu che la giovane paziente non dava grandi segni di miglioramento clinico e, soprattutto, sembrava dimagrire.

Non ne parlai mai con Francis, da una parte perchè il quadro obiettivo respiratorio era in lieve miglioramento, dall’altra perchè mi stavo gradualmente guadagnando la fiducia del personale e dei pazienti e non volli invadere il campo di altri.

Una mattina arrivai al lavoro e, prima di iniziare il giro visite sulle panche all’esterno, venni informato da Francis che la giovane paziente con la tubercolosi polmonare era stata trovata morta nel suo letto d’ospedale.

Fu una doccia fredda, dalla quale non riesco a riprendermi ancora oggi, ci penso molto spesso e la vivo ancora sulla mia carne come la mia più grande sconfitta di medico e di uomo.

Indagai con Francis sulle possibili cause, al di là della patologia di base, e venimmo a sapere che la povera ragazza non mangiava da diversi giorni, perchè la parente – o i parenti, non l’ho mai saputo con precisione – che doveva provvedere al suo vitto, era dovuta partire da diversi giorni, lasciando la ragazza da sola, perchè non aveva più i soldi per rimanere lì e per comprarle il cibo. Il personale sanitario sapeva qualcosa? Forse sì, ma non è questo il solo punto, perchè ognuno di loro non avrebbe potuto provvedere al vitto della ragazza, ma soprattutto che questo sia potuto accadere in un ospedale, per quanto diverso dai nostri ospedali, nella indifferenza di tutti, mia e delle altre persone presenti, che accudivano altri familiari ricoverati.

Da quell’episodio, presi ad andare negli ambulatori dopo il giro visite nel mio cosiddetto reparto, e cominciai a chiedere del contorno familiare che assisteva i pazienti di cui ero responsabile, dal punto di vista medico e sociale.

Una lezione che ho imparato e ho conservato per tutti gli anni successivi della mia attività di medico.

Alla prossima puntata.

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