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Il mio sguardo oggi è ancora quello che ho imparato in Uganda

Nei miei 3 mesi e mezzo in Uganda, con il tempo ho imparato a fare mie alcune abitudini del posto.

Innanzitutto il cibo. Ho cambiato 3 case durante la mia permanenza, e in ognuna di queste avevo una donna del posto che cucinava e faceva le pulizie. Ognuna di loro aveva una sua storia, ma tutte dovevavo fare un bel pò di chilometri per raggiungere il compound che mi ospitava e portavano sulle spalle in un sacco improvvisato il figlio più piccolo.

Sapevano cucinare “all’europea”, e anche bene, ma col tempo le mie preferenze andarono per qualche pietanza locale.

A colazione mangiavo velocemente quello c’era, senza mai rinunciare ai buonissimi succhi di frutta locale che preparavano le donne di turno.

A pranzo potevo trovare il risotto, qualche volta anche giallo, piuttosto che la pizza, ma la pietanza preferita, che mangiavo solo io e che non piaceva a nessuno degli altri espatriati, era una specie di “polenta”, molto pastosa, di arachidi, di cui andavo letteralmente ghiotto e che mandavo giù accompagnandola con la birra locale.

Mangiavo inoltre un sacco di banane locali, patate dolci, fagioli e riso bianco, quando potevo con le mani. Avevo imparato anche a tagliarmi con un coltello e ad assoporarmi la canna da zucchero.

Così facendo, senza volerlo e soprattutto senza tenermi su nulla, avevo perso una decina di chili in 3 mesi.

In qualche occasione andavo al campetto di calcio in terra, che si trovava vicino a Kitgum. C’era sempre qualcuno, tra gli espatriati e i ragazzi locali, che giocava a calcio. Abbiamo improvvisato diverse partite, in una delle quali noi espatriati sfidammo i ragazzi del posto. Non mi ricordo come finì la partita, ma ricordo benissimo che, nonostante fossi molto più giovane e più magro, oltre ad un discreto e arcigno difensore, non riuscivo a stare dietro alla corsa velocissima di questi ragazzi. In qualche caso ricorsi al cosiddetto fallo tattico di frustrazione.

Partecipai anche a qualche festa locale a cui mi invitarono gli espatriati o le persone del posto. Erano feste ricche di colori, cibo, musica e libertà. Erano così contagiose che, anche se sul ballo sono sempre stato una specie di stoccafisso, ad un certo punto anche io mi facevo travolgere dal ballo.

Insomma, il mio primo mese in Uganda trascorse molto lentamente, tra mille difficoltà. Non mi accorsi, invece, del passaggio degli ultimi due mesi e, come spesso succede, dovetti partire proprio quando cominciavo a stare bene.

L’esperienza in Uganda mi ha segnato molto dal punto di vista umano e professionale. Senza rendermene conto, ancora oggi il mio sguardo sulla mia vita di tutti i giorni e su ciò che accade nel mondo è lo stesso sguardo che mi hanno insegnato gli amici africani. Non sono affato migliore degli altri, ma mi sento più libero.

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