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Il mio nome è Meriam. VI capitolo. L’odio del fratello integralista

Al-Samani Al-Hadi Mohamed Abdullah indossava
uno zuccotto e una jalabya, la tipica tunica sudanese,
bianca, candida e ben rifinita. Un abito raffinato, che
in un paese povero come il Sudan potevano permettersi
in pochi.
Il tono con cui rispondeva alle domande della
giornalista della Cnn, una giovane di origini sudanesi
con il velo, testimoniava lo sprezzo e la scarsa
tolleranza che nutriva nei confronti degli occidentali
e delle loro tradizioni. Era sicuro di sé e della verità
che continuava a ripetere. Della sua menzogna. Sosteneva
che Meriam fosse sua sorella e che il suo vero
nome fosse Abrar Al-Hadi: «È scomparsa all’improvviso,
senza dirci niente e lasciare tracce. L’abbiamo
cercata, ma niente: era svanita. Poi, un giorno, siamo
venuti a sapere che si era sposata con un cristiano
e, per paura di essere smascherati, vivevano chiusi
in casa. Sono passati mesi prima che la trovassimo,
poi, finalmente, abbiamo ricevuto una segnalazione
e abbiamo avvertito la polizia».
Diceva che quando lui e il resto della famiglia
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l’avevano reincontrata sembrava diversa: «Ci guardava
in modo strano, assente, come se fosse vittima
di una stregoneria. Non ci riconosceva, ci trattava
come se fossimo degli estranei. Quando davanti alla
corte ha detto di chiamarsi Meriam Yehya è stato
terribile».
Saman Al-Hadi, seduto negli uffici dell’Islamic
Center di Omdurman, parlava e muoveva la mano
con un tono deciso, simile a un predicatore: «Io e la
mia famiglia siamo musulmani osservanti, vogliamo
solo che torni all’islam, alla sua casa».
Che lo facesse sotto minaccia e che, per lei, significasse
tradire ciò in cui aveva sempre creduto, ovvero
se stessa, non contava. L’importante era che riabbracciasse
la religione dei suoi presunti famigliari.
«Convertirsi al cristianesimo è un atto gravissimo,
la sharia lo punisce con il massimo della pena» insisteva.
Di fronte alla perplessità della giornalista, che
usava termini come “umanità” e “affetto”, Al-Hadi
non mostrava la minima compassione: un comportamento
del genere, così empio e blasfemo, non meritava
pietà. Bisognava essere duri, inflessibili: «I casi
sono due, o si pente e torna alla religione islamica e
all’abbraccio della sua famiglia, oppure rifiuta e merita
di essere impiccata».
«Ma è tua sorella, come potresti assistere alla sua
uccisione? Come potresti restare a guardare mentre
si incammina verso il cappio?»
«Ma perché dovrei indulgere nella mia umanità
e nelle mie emozioni, e rischiare di incorrere nella
collera del mio Dio? I miei sentimenti sono quelli di
un musulmano. Quelli di un musulmano che ha subito
un’offesa. Sai come sto?» aveva scosso la testa,
come se provasse davvero ciò che, probabilmente,
stava solo recitando. «È una situazione terribile, non
solo per me» come se soffrisse per davvero. «Tutti i
miei parenti, dal più giovane al più vecchio, stanno
soffrendo. Questa è una famiglia e questi sono affari
privati. Il mondo non dovrebbe interferire. Se
lei muore significa che abbiamo applicato la parola
di Dio, ed è in base a questa responsabilità che saremo
giudicati l’ultimo giorno. E quel giorno sarà
molto più difficile di quelli che stiamo vivendo oggi.
Di sicuro» aveva concluso «non possiamo accettare
nessun compromesso.»

* * *

La pubblicazione delle fotografie che ritraevano
Meriam vestita da musulmana e l’intervista del presunto
fratello non facevano che accrescere la nostra
inquietudine. Il caso scottava, destava sdegno e scalpore,
e risvegliava gli istinti e le passioni più violente
che si agitavano sottotraccia nel paese. I suoi avvocati
erano preoccupati, cominciarono a parlare esplicitamente
di un pericolo legato alla scarcerazione.
D’altra parte, Al-Hadi, il presunto fratello, era stato
chiaro: se Meriam fosse stata rilasciata senza che si
fosse riconvertita all’islam l’avrebbe uccisa con le
sue stesse mani. Era la fine riservata a tutti coloro
che abbandonavano la parola di Allah, la fine che si
meritavano. Che fosse una donna, che aspettasse un
bambino e, addirittura, fosse sua sorella non aveva
alcuna importanza.
Ero stupita dal suo livore. Va bene l’integralismo
e tutto il resto, ma mi sembrava eccessivo, sproporzionato.
Decisi di indagare.
Senza perdere tempo contattai un mio referente a
Khartoum e gli chiesi di tenerlo d’occhio e di raccogliere
quante più informazioni possibili.
I risultati dell’indagine furono sorprendenti e portarono
alla luce dei risvolti inquietanti, che non erano
ancora di pubblico dominio e che, soprattutto, confermavano
i miei sospetti.
Gli amici e i conoscenti di Al-Hadi sostenevano
che la fedeltà al Corano non c’entrasse niente: se
aveva portato Meriam in tribunale e l’aveva addirittura
messa in pericolo di vita era anche, e soprattutto,
per motivi economici. L’inchiesta che aveva
portato all’arresto della ventisettenne cristiana nascondeva
gelosie e cupidigie, la volontà di mettere le
mani sulle attività commerciali che la madre di Meriam
aveva avviato dopo essere stata lasciata dal marito
ed essersi trasferita a Khartoum, garantendo alla
figlia un’esistenza semplice ma dignitosa, al punto
di permetterle di frequentare l’università, che, però,
non aveva terminato.
Quasi in contemporanea i consulenti del Sudan
Justice Center, che avevano istituito un’indagine parallela,
giunsero alla medesima conclusione: diverse
testimonianze confermavano che i presunti parenti
della ragazza non fossero mossi da moventi sentimentali
o ideali, ma dal puro e semplice interesse.
Se Meriam fosse rimasta in prigione e, meglio ancora,
fosse stata giustiziata, sarebbero stati gli unici
beneficiari dei suoi possedimenti, visto che il matrimonio
che la legava a Daniel Wani non era riconosciuto
dalla legge islamica.
L’indagine degli avvocati sudanesi mostrava che
l’origine della vicenda risaliva all’infanzia di Meriam,
quando il padre aveva abbandonato moglie e
figlia, si era trasferito nel Sud del paese e si era risposato
con un’altra donna, dalla quale aveva avuto
due bambini. Meriam non sapeva niente di lui, che
viso avesse o con che voce parlasse, figurarsi che
fosse musulmano. Sua madre, un’immigrata di origini
etiopi e cristiana ortodossa, si prese cura di lei
fino a quando, nel 2012, morì. Fu allora che i fratellastri
di Meriam irruppero nella sua vita: erano venuti
a conoscenza dell’eredità, un negozio di prodotti
artigianali dell’Etiopia e una piccola fattoria, e
avevano deciso di appropriarsene. Elaborarono un
piano tanto astuto quanto crudele, e non si fecero
scrupoli ad attuarlo. Meriam scoprì della loro esistenza
nel momento in cui ricevette la notifica della
denuncia nei suoi confronti.
Quando, alcuni mesi dopo, li incontrò in tribunale
non sapeva chi fossero mentre loro l’approcciarono
come se fino a pochi mesi prima avessero vissuto insieme,
come una famiglia vera.
Il governo sudanese, o una buona parte di esso, e
soprattutto il giudice che aveva avviato il procedimento
a seguito dell’esposto avevano creduto alla
loro versione, avvalorando la teoria della “musulmana
rinnegata” fuggita con un cristiano.

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