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Il mio nome è Meriam. La gioia della libertà dopo il terrore della prigionia. VIII Capitolo

Nella sede della Commissione nazionale per i diritti umani del Sudan di Al-Nashat Road, nel centro di Khartoum, i telefoni squillavano senza sosta.
Era il 16 giugno. Mancavano meno di due settimane al Ramadan e questo elemento aveva giocato a favore di Meriam, quasi quanto la pressione internazionale e il dibattito che si era animato nel paese intorno al suo caso.
Nonostante i giornalisti locali e gli inviati di tutto il mondo insistessero per incontrarlo, Amal Eltinay, il presidente della commissione, non concesse nessuna intervista.
La notizia, però, era ormai di pubblico dominio.
L’organismo governativo si era schierato al fianco della giovane condannata a morte ritenendo che la sentenza comminata un mese prima fosse in netto contrasto con i dettami della Costituzione. Sollecitata dai legali di Meriam e dalle organizzazioni che avevano animato la mobilitazione internazionale, tra cui Italians for Darfur, la commissione si era pronunciata con un giudizio chiaro, basato sull’articolo 38 della Carta sui diritti umani contenuta nella Costituzione transitoria del 2005 che sanciva che in Sudan «tutti hanno il diritto di professare il credo e la fede scelti e di essere liberi di dichiarare la propria religione e di esprimerla attraverso l’insegnamento, la
pratica e l’osservanza del culto».
Nelle settimane precedenti, Eltinay aveva studiato il caso in modo approfondito. Per prima cosa aveva inviato dei funzionari in carcere per incontrare la condannata. Dopodiché aveva esaminato gli articoli diffusi dai media nazionali e internazionali e interpellato esperti costituzionalisti. Infine aveva riunito gli altri commissari e, dopo una valutazione corale, aveva diramato la nota ufficiale. Un comunicato scarno, poco più di venti righe che informavano non solo delle conclusioni della commissione ma “consigliavano” al governo di agire in conformità con i trattati internazionali sottoscritti dal paese e le convenzioni costituzionali, tra cui, appunto, la Carta dei
diritti contenuta nella Costituzione.
Inoltre il documento si soffermava sul comportamento non professionale del giudice di primo grado, che, se confermato, avrebbe gettato ulteriori ombre non solo sul caso particolare ma anche sul sistema giuridico in generale.
Gli avvocati di Meriam erano elettrizzati, sapevano che era un passo importante, che si sarebbe incanalato lungo un percorso ben definito: l’annullamento della sentenza di primo grado.

* * *
In Italia l’attenzione su Meriam restava alta, anche se la politica stava attraversando una fase turbolenta e gli esponenti del governo coinvolti nella vicenda erano distratti da quanto avveniva in parlamento, dove si stavano approvando riforme impegnative e dolorose.
In uno dei passaggi cruciali su un importante provvedimento in Senato, ebbi modo di confrontarmi con
il viceministro agli Esteri Lapo Pistelli che sul caso aveva mantenuto un impegno costante e che tramite la segreteria aggiornavo su tutti gli sviluppi della vicenda. Quando mi comunicò che sarebbe partito per una missione diplomatica nel Corno d’Africa e avrebbe, tra le altre cose, incontrato le autorità sudanesi, provai una grande soddisfazione: sapevo che
avrebbe fatto il possibile per visitare Meriam, verificare le condizioni della sua detenzione e favorirne la liberazione.
Se c’era una diplomazia in grado di convincere
Khartoum a rimediare all’assurda sentenza, senza alcun dubbio era quella italiana. Il nostro paese, attraverso l’operato dell’ambasciatore Barucco, aveva avviato da tempo, e nel massimo riserbo, i contatti
con esponenti autorevoli del governo del Sudan per arrivare a una soluzione positiva e definitiva in tempi brevi. Era importante mantenere un profilo che non urtasse la suscettibilità dei sudanesi e non producesse
una reazione scomposta, dagli esiti imprevedibili.
Daniel era molto preoccupato e mi aveva chiesto di sollecitare un ulteriore intervento italiano perché, nonostante i segnali positivi, temeva che qualcosa potesse andare storto e non si giungesse all’annullamento del giudizio emesso in primo grado.
Intanto i parenti che avevano denunciato la giovane cristiana minacciavano di farsi giustizia da soli.
Il fratellastro aveva ripetuto in più di un’occasione che se Meriam non avesse voltato le spalle al cristianesimo e riabbracciato l’islam l’avrebbe uccisa con le proprie mani, dando corso alla condanna
Alcuni attivisti sudanesi avevano lanciato un allarme inquietante: a Khartoum stava prendendo forma una brigata radicale che come obiettivo aveva la difesa della legge islamica e, nel caso la corte d’appello
avesse stravolto la sentenza, avrebbe scelto di
colpire Meriam e i bambini come primo atto dimostrativo.
Da quando era iniziata la Primavera araba, i focolai di rivolta si erano accesi in diversi paesi arabi e africani, tra cui il Sudan, governato dal generale Al- Bashir, che era salito al potere con un colpo di stato nel 1989 e da quel momento aveva governato ininterrottamente senza farsi troppi scrupoli per mantenerlo.
Le piazze erano gremite e le studentesse
prendevano parte alla protesta accanto ai corrispettivi maschili subendo lo stesso trattamento. In una realtà come quella sudanese, dove era in corso un processo di radicalizzazione della sharia, i servizi di sicurezza addetti al controllo e al contenimento  dei movimenti antigovernativi usavano metodi repressivi  più che attenersi alle indicazioni del codice penale. Utilizzavano le pene corporali previste dalla legge islamica. Tutti i cittadini vi erano assoggettati, senza alcuna deroga per i non musulmani.
Il governo sudanese reagì duramente, in modo
autoritario e feroce. Gli stessi partiti islamici furono colti di sorpresa e mossero alcune riserve, ma non ottennero alcuna risposta. Al contrario, al fine di garantirsi una maggiore libertà d’azione e una più ampia e profonda diffusione della sharia, il governo dichiarò
lo stato d’emergenza.
Il numero delle amputazioni e delle fustigazioni pubbliche crebbe esponenzialmente. La violenza non
risparmiava giovani e donne. E attorno Meriam e ai suoi figli si respirava un’aria pesante, satura di lacrime e sangue, di un’ideologia sempre più sfrenata e intransigente, palesemente contraria ai dettami di ogni religione, compresa quella musulmana.
La svolta arrivò  il 23 giugno. Mohaned era uscito di casa molto presto, visto che voleva essere in tribunale prima dell’inizio dell’udienza di secondo grado. Quel
giorno la corte d’appello si sarebbe espressa sul futuro di Meriam. Un futuro non immediato, nel caso fosse stata confermata la sentenza che la condannava a morte, ma che sarebbe stato segnato irreversibilmente
dalla decisione che i giudici stavano per
annunciare.
Era da poco passato mezzogiorno e gli uffici giudiziari erano già aperti, cosa inusuale per gli standard sudanesi.
Il giovane avvocato stava guidando lungo Al Baladiya Street quando il cellulare iniziò a squillare.
Era il numero della cancelleria del tribunale.
Mohaned accostò.
La voce al telefono gli comunicò che il ricorso contro la sentenza di primo grado a carico della sua assistita, presentato il 21 maggio, era stato accolto e, dunque, il dispositivo di condanna annullato.
Le tensioni delle ultime settimane sembrarono
62 svanire in un istante. Mohaned si slacciò la cintura di sicurezza e scese dalla macchina, aveva voglia di urlare. Lui e i suoi colleghi avevano resistito a pressioni di ogni sorta, avevano passato giorni e notti a spulciare leggi e documenti, avevano esultato, tentennato e discusso, ma, alla fine, ce l’avevano fatta.
Chiamò subito Daniel e gli altri avvocati. Si diedero appuntamento davanti al carcere. Dopodiché raggiunsero il luogo dove avrebbero atteso che le formalità necessarie per la notifica dell’annullamento del verdetto fossero espletate. L’incubo stava finendo. Ma bisognava essere cauti, andare con i piedi di piombo. Soprattutto nessuno doveva sapere che la giovane presto sarebbe stata scarcerata. La notte non era ancora terminata.
Quando la guardia aprì la porta e la direttrice del carcere entrò nella cella con un documento tra le mani, Meriam capì all’istante che si trattava dell’ordine di scarcerazione: la sentenza che l’aveva catapultata in quella stanza misera e squallida era stata annullata, era di nuovo libera.
Aveva in braccio Maya, la strinse al petto. Per la prima volta da quando l’incubo era cominciato lasciò che le lacrime le bagnassero il viso. Martin era eccitato, come se avesse intuito qualcosa, come sesapesse che la sua vita sarebbe finalmente ricominciata.
«Recupera le tue cose» disse la direttrice con un tono freddo e distaccato, lontano anni luce dal fuoco che Meriam sentiva bruciare nel petto, all’altezza del cuore. «Dopodiché puoi andare.»
Meriam ci mise un istante, con Maya stretta in
braccio e Martin che non stava fermo un minuto, mise insieme un misero bagaglio e, scortata dalla guardia, si incamminò verso la sala d’attesa. Daniel era lì, sulla sedia a rotelle. Quando la vide rimase senza fiato. Aveva sognato quel momento centinaia di volte: era molto più bello di quanto avesse mai immaginato. Meriam era magra, stanca, sfatta.
Era meravigliosa.
Lo raggiunse, gli mostrò la piccola Maya.
Daniel allungò la mano quasi con timore e le diede una carezza.
Meriam sorrise, lo guardò con i suoi grandi occhi neri.
Daniel spostò la mano, la diresse verso il suo viso.
Per mesi non avevano potuto toccarsi, neppure
sfiorarsi. Erano due adulteri, due infedeli. Se le autorità sudanesi non potevano dividere i loro cuori avevano almeno diviso i loro corpi.
Meriam accolse la carezza, gli baciò la mano.
Rimasero un istante lungo un’eternità occhi negli occhi, storditi dalle emozioni. Finalmente insieme.
Mentre Daniel faceva la conoscenza di Maya e cercava
di arginare Martin, che voleva in ogni modo la
sua attenzione, gli avvocati, che avevano assistito
a quell’incontro senza respirare, commossi quasi
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quanto loro, aggiornarono Meriam su quel che stava
succedendo e che sarebbe accaduto. La decisione
della corte d’appello le aveva restituito la libertà, tuttavia
non era finita. La tensione era alle stelle e sarebbe
bastato niente per farla esplodere. Per prima
cosa, dissero, li avrebbero condotti in un luogo sicuro,
dove avrebbero avuto modo di ritrovare un po’
di serenità. Dove nessuno li avrebbe riconosciuti e
avrebbe tentato di far loro del male. Casa loro, conclusero,
non era sicura, bisognava trovare un posto
lontano. Dall’altra parte del mondo.
L’organizzazione del viaggio verso gli Stati Uniti,
paese di cui Daniel era cittadino e che aveva scelto
come meta sin dal principio, fu rapida e convulsa.
Viste le ovvie tensioni con la diplomazia sudanese,
si rivolsero all’ambasciata del Sudan del Sud, il più
giovane stato del mondo, nato il 9 luglio 2011 in seguito
a un referendum e a un conflitto durato oltre
vent’anni e costato milioni di morti. I funzionari
sud-sudanesi diedero il massimo supporto e si adoperarono
per trovare il modo di farli partire il prima
possibile. Visto che Meriam e i bambini non avevano
il passaporto le concessero un documento di emergenza,
un permesso di viaggio per motivi umanitari
che l’avrebbe autorizzata a raggiungere la capitale
sud sudanese e, da lì, lasciare il paese. Negli Stati
Uniti non ci sarebbero stati problemi poiché la diplomazia
americana aveva prontamente dato il via
libera al visto.
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Sembrava che tutto procedesse in modo spedito.
Meriam pareva rinata mentre Daniel, che finalmente
poteva godersi Maya e Martin senza limitazioni, non
vedeva l’ora di partire: una volta arrivati in America,
si sarebbero diretti a Manchester, nel New Hampshire,
dove avrebbero riabbracciato suo fratello e il
resto della famiglia. Per i primi tempi si sarebbero
dovuti accontentare del piccolo ma accogliente appartamento
dove aveva vissuto da studente, più
adatto a uno scapolo che a una famiglia di quattro
persone. Daniel era convinto che la comunità sudanese
li avrebbe accolti a braccia aperte e si sarebbe
presa cura di loro in tutto e per tutto.
Quella prima notte che passarono insieme, Meriam
non riuscì a chiudere occhio. Daniel era al
suo fianco, Maya tra loro, e Martin, che non dormiva
da solo da cinque mesi, si agitava nel lettino.
La stanza dell’anonimo edificio di Khartoum
dove erano stati alloggiati temporaneamente era
immersa nella penombra e Meriam li osservava e
ascoltava i loro respiri.
Era libera. Ancora non riusciva a crederci. Sapeva
che quel momento sarebbe arrivato, lo sperava, ma
non se lo aspettava così presto. Era stata una grande
sorpresa. Come lo era stata scoprire che era ancora
in pericolo, che fino a quando fosse rimasta a Khartoum
qualcuno avrebbe potuto fare del male a lei e
alla sua famiglia. Negli Stati Uniti sarebbe stato diverso,
non avrebbe dovuto trascorrere la notte chiusa
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in casa, ma avrebbe potuto camminare sotto un cielo
di stelle e respirarne la magia.
Già, chissà com’era il cielo in America? E come sarebbe
stato vivere così lontano dalla sua terra?
Meriam non avrebbe voluto lasciare il Sudan.
Amava i suoi odori, i colori e i suoni. Erano parte di
lei. Sapeva che le sarebbero mancati da morire. Ma,
se voleva vivere, non aveva scelta.
* * *
«Meriam è libera! La corte d’appello ha annullato
la sentenza!»
Khalid non riusciva a trattenere l’emozione. Lui
e gli attivisti di Sudan Change Now si erano battuti
con il coltello tra i denti per ottenere quel risultato,
ci avevano dedicato tempo ed energie: sapere che
era servito, che ce l’avevano fatta, era una soddisfazione
travolgente.
Lo capivo e condividevo la sua felicità. Eppure mi
sforzavo di non farmi prendere dall’entusiasmo, di
tenere i piedi per terra. Non riuscivo a credere che
fosse finita: fino a quando non fossi stata certa che
Meriam avesse lasciato la prigione e fosse al sicuro
non sarei stata tranquilla.
A rendere pubblica la decisione del tribunale sudanese,
che ne aveva ordinato il rilascio, era stata
l’agenzia di stampa di stato suna. Una fonte affidabile.
Che, però, non mi bastava. Avevo bisogno che
Daniel o uno dei legali la confermasse.
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Mohaned rispose dopo un paio di chiamate a
vuoto e mi confermò che Meriam non era più in
prigione, anche se i giudici avrebbero comunicato le
motivazioni della scarcerazione solo il giorno dopo.
«Non mi importa nulla delle loro motivazioni,
l’importante è che sia fuori» feci sollevata. «Ora è il
momento di festeggiare!»
Mohaned ridacchiò, poi, però, riprese a parlare
con un tono diverso, inaspettatamente serio.
«Aspetterei ancora un po’ prima di fare festa…»
disse, aggiungendo che era preoccupato per quello
che sarebbe potuto succedere adesso, una volta che
Meriam si fosse trovata in libertà.
I presunti parenti rappresentavano una minaccia
reale. In particolare Al-Hadi, il fratellastro, di cui Meriam
aveva ignorato l’esistenza fino a quando, senza
preavviso, l’aveva portata in tribunale. Continuavo
a chiedermi perché, nonostante le prove avessero dimostrato
il contrario, seguitasse a sostenere che la
storia di Meriam fosse inventata, che avesse tradito
la fede del padre e dovesse scontare la sua colpa.
Seppure fosse stato convinto di essere nel giusto,
come poteva provare tanto odio verso quella che
considerava sua sorella? Come poteva desiderare
che morisse?
Se mi sembrava assurdo che qualcuno dello stesso
sangue di Meriam la volesse sul patibolo, non mi
sorprendeva che in tanti, troppi, a Khartoum volessero
che fosse giustiziata. Avevo compreso dal
primo istante quanto fosse profondo il risentimento
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del mondo islamico nei suoi confronti. Lei stessa ne
era consapevole. Questo, però, non l’aveva fermata.
Dal giorno della condanna era stata risoluta, decisa
ad andare fino in fondo perché sapeva di essere nel
giusto. Cinque mesi di carcere non l’avevano piegata
e, se la condanna non fosse stata annullata, avrebbe
tenuto duro e sopportato la prigione pur di fare valere
le sue ragioni.
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