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Pace. Il futuro del Tigray. AP Photo/Nariman El-Mofty

Etiopia, il percorso verso la pace e il cortocircuito nella risposta alla crisi

I primi passi del Peace Choice Committee, la ricostruzione del Tigray affidata all’Unops, la situazione odierna. Sarà mai possibile giocare alla pace?
“Giocare alla pace”.

Prima che vi fermiate al solo titolo, che potrebbe apparire sciocco o frutto della canicola estiva, sappiate che è stato pensato da mia nipote, una vivacissima bimba di 5 anni.

“Giocare alla pace” non è un modo per sminuire il processo, anzi, tutti sappiamo quanto i bambini prendano seriamente il gioco e quanto curino ogni aspetto, ogni particolare.
Il gioco è semplicemente la cosa più importante, l’attività attraverso la quale poter fare materialmente qualcosa, fantasticare sul mondo, riallacciare i rapporti con qualcuno, mettersi alla prova.

Ma andiamo al sodo. Se siano dei primi tentativi di gioco non lo sappiamo, ma il 12 Luglio si è riunito per la prima volta il comitato incaricato dal governo etiope di condurre futuri colloqui di pace con la leadership politica del Tigray.

Il Peace Choice Committee, così è denominato, è un comitato presieduto dal vice primo ministro e ministro degli Esteri Demeke Mekonnen.
Ne fanno parte altri sei membri: Redwan Hussein, ambasciatore etiope in Eritrea; il ministro della Giustizia Gedion Timotheo; il direttore generale del National Intelligence and Security Service (NISS) Temesgen Tiruneh; il capo dell’intelligence militare, il generale Berhanu Bekele; un alto funzionario del Prosperità Party (PP) la coalizione creata dal PM Abiy Ahmed; il professor Hassen Abdulkadir e il vicepresidente della regione Amhara.

Secondo il resoconto della riunione, il comitato avrebbe sviluppato le procedure interne e definito i principi etici per i colloqui da condurre sotto la supervisione dell’Unione Africana.

La prima opposizione.
I Tigrini infatti, non vedono di buon occhio Olusegun Obasanjo, l’inviato dell’UA per il Corno d’Africa, accusato di essere troppo vicino al Primo Ministro etiope e chiedono che i colloqui si tengano in Kenya, sotto l’egida del Presidente Uhuru Kenyatta, capace secondo loro di “ospitare e facilitare” le trattative.

Un ulteriore stallopotrebbe intravedersi nella mancanza di efficacia di tale comitato. Dalla riunione infatti non si è usciti né con una data, senza individuare un luogo o una struttura per i colloqui, né individuando un ordine del giorno da seguire.

Il problema più grande rimane la situazione in cui versa Tigray.

Anche se i combattimenti su larga scala sono cessati e il 24 Marzo di questo anno è stata dichiarata la tregua da parte del governo, la situazione umanitaria rimane catastrofica. Sono 5,2 milioni, il 90% della popolazione totale del Tigray, le persone che oggi dipendono dall’arrivo degli aiuti umanitari.

Una situazione che si allarga anche alle regioni vicine, coinvolte nei combattimenti. Nel nord della regione Ahmara e nella regione Afar.
Oltre ad essere zone fortemente interessate dal rimpatrio degli sfollati interni (IDP), oggi soffrono le medesime criticità della regione tigrina.

Anche se si è accertata “una progressione lato umanitario in termini relativi”, come sottolineato dall’Alto rappresentante UE per la politica estera Josep Borrell tale approccio risulta del tutto insufficiente in termini assoluti, per una risoluzione del problema.

Come già sottolineato in un recente articolo, per il Tigray il tempo sta per finire. Se non si procedesse alla normalizzazione dei rapporti, a ristabilire la sicurezza del territorio e non si procedesse al sostegno massiccio all’agricoltura del nord del paese, ciò che potremmo trovarci davanti sarebbe una vera e propria catastrofe.

Cortocircuito nelle risposte.

Non solo gli aiuti, ma anche la ricostruzione. Martedì’ scorso 12 Luglio, il governo etiope ha incaricato l’Unops (United Nations Office for Project Services), agenzia delle Nazioni Unite, di ricostruire le infrastrutture principali distrutte dai combattimenti nella regione del Tigray, nell’ambito di un progetto finanziato dalla Banca Mondiale.

Il progetto mirerebbe alla ricostruzione delle infrastrutture, a migliorare l’accesso ai servizi di base e al supporto alle vittime delle violenze di genere, attraverso un finanziamento di 300 milioni di dollari.

Denaro che va ad aggiungersi ai 715 milioni di dollari già ricevuti a fine giugno, sempre dalla Banca Mondiale, in prestiti e sovvenzioni per aiutare le comunità di pastori – colpite da conflitti e siccità senza precedenti – e far fronte all’insicurezza alimentare.

L’Unops però ha già fatto sapere che il progetto di ricostruzione e supporto non partirà fin quando non verrà garantita la sicurezza nella regione. La stessa sicurezza che le Ong e i partner internazionali richiedono per riprendere in mano progetti e servizi sospesi sin dal Novembre del 2020.
Giocare alla pace si può.

Giocare alla pace si può, ma serve impegno. Potrebbe far sorridere l’invito a giocare alla pace che coinvolge in pieno un Nobel per la Pace come Abiy Ahmed, ma diciamocelo, il tempo dell’ironia è finito da un bel pezzo.

Ciò che però non dovrebbe essere mai abbandonato è il sentiero che porta alla pace.

Potrebbe apparire come un termine abusato, ma da esso non dipende solo l’equilibrio interno al paese – di per sé importante – ma anche l’assetto dell’intero Corno d’Africa, il rapporto che l’Etiopia ha con i propri vicini ed il ruolo che ha ricoperto sino ad oggi nella regione.

Per arrivare alla pace, come qualsiasi bambino saprebbe ben spiegare, occorre impegno e soprattutto serietà. “Fare la pace” pretende il rispetto di alcuni passaggi: il dialogo, l’inclusione, l’abbandono di qualsiasi ambiguità.

Solo una base come questa, fatta anche di compromessi (per tutte le parti in causa) potrà essere un trampolino per la ricostruzione, il ripristino della sicurezza nel paese e per affrontare una crisi umanitaria acuita da una congiuntura internazionale per nulla favorevole.

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