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Cosa ci raccontano quei barconi ‘nero’ d’Africa

E’ un’ensemble di perle. Tacite. Parlano silenti di cose mai viste a gente che non c’è. In mezzo al mare. Pupille vivide, fulgide, bianche, bianchissime. Tra il nero della notte e il blu del mare nero. Splendide perle, uniche, rare, preziose. Sono gli occhi dei tanti sul barcone. Roteano come in un set dieci undici, dodici tredici, sedici venti. E via a seguire, a contare e a continuare ad andare verso dove non sanno. Ore, albe e crepuscoli in balia delle onde. Un tappeto di capelli ricci, setosi, pungenti di salsedine. Una tavolozza con un sol colore. Nero. Di tutto. Il vento urla invano alla luna. Nel freddo gelido, pungente, s’incrociano paura e speranza, respiri affannosi e fiati mozzati. Certe notti tempestose in cielo neanche una stella. Buio pesto. Le stelle sono nascoste tra sogni e progetti. Non c’è straccio per coprirsi. Non c’è riparo dalla pioggia. Né coperte per bambini. Si muore così nel viaggio della vita verso l’altrove libero. Disumanamente. Certi giorni d’estate il sole cocente arde pelle e brucia labbra corrose. La sete infiamma corpi debilitati. Non c’è riparo d’ombra. Bracciate d’acqua salata sul viso, sul capo, sul corpo. Ripetutamente. La salsedine arde, brucia e infuoca. Apre ferite sanguinanti. S’impazzisce di sete. Sorsate d’acqua rubate a pugni dal mare non alleviano. Chi ne beve muore lentamente. L’arsura cresce, tocca cuore e cervello. Sfiniti si va giù. Si muore anche col mare calmo. Morti annegati e corpi gettati in acqua per non far zavorra. Nessuno li vede. Ci sono. Su un pezzo di quelle autostrade del mare solcate da belle navi che s’inchinano a guardare e mercantili che tirano la rotta. Una piccola Africa a bordo. Dal Mali, dal Niger, dal Kenia, dalla Costa d’Avorio lì su quel barcone di mani tese, facce al cieloe occhi disperati. Tantissimi. Disperatamente soli.Disperati. Lasciati andare sulle acque. Su di un gommone. Su uno scafo. Su di un barcone. Sul barcone oggi mostrato a ricordo di tragedie disumane. Un relitto alla 58esima Mostra d’Arte Internazionale di Venezia. Il peschereccio libico che affondò ,il 18 aprile 2015, nel Canale di Sicilia con settecento persone a bordo. A bella mostra alla Biennale in un bacino dell’Arsenale, lì dove l’ex fabbrica di navi della Serenissima. E’ chiamata “Barca Nostra” dall’ideatore del progetto Christoph Buchel. Caricata su di una piccola nave, dal pontile Nato della Marina Militare ad Augusta, è giunta a Venezia. Occhieggia il campanile di San Marco, le fanno corona a distanza calle e canali,turisti un po’ distratti e intellettuali disarmati. Come regina delle morti. Sovrasta, nel silenzio del suo essere in Mostra, miserie umane, richiama coscienze, schiaffeggia cuori chiusi di politici politicanti, umilia me, te e tutti i potenti della Terra avidi, ciechi, e sordi. Il relitto, ha dichiarato il presidente della Biennale, è stato voluto “per smuovere le coscienze”. Altri barconi però, altre carrette solcano acque non sempre tranquille sotto l’occhio nascosto di timonieri e capitani improvvisati in traversate azzardate. Il vento rompe i timpani e alza le vesti. Chi dorme con gli occhi aperti non vede il nuovo giorno. Chi guarda ad occhi chiusi vede domani passati e notti sognate. Si naviga a vista. Scafisti camuffati con dollari al sicuro. Navigazione senza sosta. Senza scali e senza cibo per terra vicina di miglia ma sempre lontana. Si nasce e si muore a bordo. Ogni volta così. Morte e vita. Vita e morte. Non un naufragar dolce né crociera vip. Ma come direca va sans direverso casa che non sarà mai casa d’Africa.

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