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Akhere, fuggito dalla Nigeria rincorre il suo futuro dando calci a un pallone

Quasi non si sente quando parla. Sottovoce. A fior di labbra. E nel suo dire lento le parole si smorzano in gola sino al silenzio. Negli occhi quel che non dice. Pensieri silenziosi e ricordi che bruciano. Chiari sul nero di pelle. Evidenti soprusi e sofferenze patite da sempre. Akhere così calmo e quieto, un pò timido, chiuso e silenzioso nell’aula del CPIA ad imparare l’italiano o nella casa famiglia che lo ospita è un leone che si scatena sul campo di calcio. Con indosso la maglia numero tre questa stagione ha segnato sette goal. Son già due anni che gioca da difensore, son due anni che è in Italia. Appena diciotto anni. Ancora un po’bambino. E poco più che bambino ha lasciato la Nigeria. Con Odion, la sorella gemella, è scappato di casa, di notte, con in spalla provviste di pane e acqua. In tasca pochi soldi racimolati chissà come e dove. In casa estrema povertà. Poco cibo. Scarso e di scarto dal piatto abbondante del papà. Akhere a sera andava a mangiare dalla grand mère. Lì si sentiva amato con la carezza della nonna e i baci della mamma. Ha frequentato per poco la scuola. Il papà elettricista, gran bevitore di alcool quasi sempre ubriaco, glie lo vieta e gli proibisce di giocare in strada. E’ così che la mamma lascia tutti. Voleva che il suo Akhere studiasse. I due gemelli con la figlia più grande restano in casa. Poco più che una stanza attrezzata per tutto di tutti dove non c’era che niente per tutti e quel poco solo per il papà. Akhere dava, con i compagni, ogni volta che poteva, su campi da gioco improvvisati in strada, quattro calci a palloni improvvisati, fatti di materiali di risulta avvolti in un panno o nel cartone. Il suo sogno calciare come quelli della Juve e andare a scuola dove proprio si sentiva libero. Ne ha prese di botte dal papà. Tante. Anche quando chiedeva una nuova ti shirt. Mangerà pane e acqua per molto tempo e sarà fame e sete per lunghi giorni ma con tanta libertà nel respiro. A piedi, con la gemella, verso un altro mondo, insieme a due cari amici. Tutti e quattro con gli stessi sogni. Scuola, pallone e libertà. Ode il paese natio é a quattro ore da Lagos l’ex capitale della Nigeria. È notte fonda. La prima di tantissime notti su, su, per tutta la Nigeria e il Niger sino al giorno dell’arrivo in terra libica. Il deserto in poco più d’un mese. Un soffio di vento caldo ancora nelle orecchie di questa primavera e sabbia dorata fine, sottile, impalpabile come cipria, spessa, pesante sulle ciglia, nei capelli, nelle unghie, sotto le vesti, sul corpo. Un po’ del Sahara è nella bellezza dei giorni in Italia. Ma quante cadute sulle dune e quante gocce d’acqua centellinate per non morire di sete. Quante michette contate a testa per non morire di fame. A terra per coperta la mezza luna e tutto di sabbia una coltre, sul corpo, sino agli occhi, al risveglio del mattino. Akhere ce la fa e agli altri tende mano e coraggio. Tutti di poco meno di quindici anni. Scaltro e fortunato  supera il “ghetto di Alì”, il lager dei migranti, a Sabha, nel deserto libico. Con il deserto alla spalle, le piaghe ai piedi, le gambe doloranti e lo stomaco stretto dai morsi della fame si ferma alle porte di Tripoli. Nelle campagne trova lavoro e continua a dormire all’addiaccio. Zappa da mane a sera, raccoglie patate, pomodori, peperoni e per paga pane e acqua. La sorella decide di andar via. Va verso il mare. S’imbarca. Lascia Tripoli. Saprà solo ora essere in Germania e in attesa di partorire. Akhere tira avanti con gli amici di cuore e pallone ancora un po’ nelle campagne di Tripoli poi su di un barcone in centocinquanta verso l’Italia. L’Africa è alle spalle. Davanti la vita. Una traversata come tante con mare grosso, poi molto grosso e tempestoso. Il barcone è in balia del mare. Onde alte e lunghe. Vento e acqua a bordo. Senza cibo. Digiuni tutti e tutti con conati. Sull’onda come su di un’altalena. C’è gente che cade in acqua. Tanti ingoiati dal mare. Non si vede niente. Condizioni meteo proibitive. Grida disperate. Tra i migranti annegati anche i due amici di Akhere. Siedevano ai bordi del barcone. Sono stati travolti, come altri, dalla forza del mare in tempesta. Akhere è al centro, sotto coperta. Sbarca e non ha lacrime né una foto dei suoi compagni di pallone improvvisato e di viaggio disperato. È minorenne. Accolto in casa famiglia. Gli regalano un telefonino, abiti, calze, scarpe e cappellini. Parla con la gemella in Germania. Gli darà un nipotino a giorni. Rintraccia la madre. La rincuora. Apprende del padre morto in un incidente stradale nella capitale della Nigeria. Non versa una lacrima. Racconta alla mamma che finalmente va a scuola e gioca al calcio. Ha più di una ti shirt e due paia di scarpe col chiodo. A lezione di lingua italiana al mattino e al pomeriggio allenamenti. Frequenta il CPIA Salerno e gioca nel Cava United Football Club. Osservato da più d’un club. Avvistato. Già richiesto. Attende e calcia di fino. A scuola indossa un berretto. Copre a raso la testa. Quando ne è senza tutto di lui sa di Africa. Ha nodi ai capelli. Favolosi dreads. In Nigeria non vuol più tornare. Per ora. Qui si scatena sul terreno di gioco e quando va in goal impazzisce di gioia e corre forte sotto la curva. Sul display del cellulare la foto di una ragazza. La fidanzata. Nigeriana anche lei. Soplia. Coetanea. Vive a Napoli dove è sbarcata. Tutto su instagram. Cuori di Nigeria che si amano in Italia. È l’amore dei millennial due punto zero d’Africa.

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