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Burkina Faso, un affondo al neocolonialismo nel Sahel

In un comunicato congiunto del 28 gennaio 2024, il portavoce del governo Burkinabé Jean Emmanuel Ouédraogo, a nome anche delle autorità militari al potere in Mali e Niger afferma: “L’ECOWAS, sotto l’influenza di potenze straniere e tradendo i suoi principi fondanti, è diventata una minaccia per i suoi Stati membri e per i popoli di cui dovrebbe garantire la felicità”. Ha altresì aggiunto: “L’Organizzazione non è riuscita ad assistere i nostri Stati nella nostra lotta esistenziale contro il terrorismo e l’insicurezza. Peggio ancora, quando questi Stati hanno deciso di prendere in mano il proprio destino, essa ha adottato una posizione irrazionale e inaccettabile, imponendo sanzioni illegali, illegittime, disumane e irresponsabili, in violazione dei suoi stessi testi”. Quindi, di fronte a questa situazione continua, aggiunge che i Capi di Stato di questi tre Paesi “assumendosi la piena responsabilità di fronte alla storia e rispondendo alle aspettative, alle preoccupazioni e alle aspirazioni delle loro popolazioni hanno deciso in piena sovranità di ritirare senza indugio il Burkina, il Mali e il Niger dalla Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale” (ECOWAS).

Questa decisione è rischiosa in quanto i tre paesi sono quelli che gli inglesi chiamano Land-Locked, ossia “paesi senza accesso al mare”, costretti a dipendere dai paesi frontalieri dell’ECOWAS.
La Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale ha minacciato il Niger di un intervento militare in seguito al colpo di Stato attuato nel luglio 2023, l’ultimo in ordine di tempo dopo il golpe in Mali del 2020 e in Burkina Faso del 2022; questi due ultimi paesi infatti erano già stati sospesi e sottoposti a regime sanzionatorio.

L’Organizzazione è stata più volte criticata per non aver preso delle decisioni simili nei confronti di quelle forze civili che hanno modificato la loro costituzione pur di mantenersi al potere, in particolare la Guinea, la Costa d’Avorio e altre. Questo atteggiamento dà l’impressione di un’iniquità nell’attuazione delle prescrizioni dell’Istituzione in merito alla rottura della governance democratica.

Del diritto di recesso dalle organizzazioni internazionali.

L’accordo di volontà è il principio sacrosanto che regola le relazioni internazionali tra gli Stati. Essi aderiscono liberamente ai trattati che istituiscono le organizzazioni internazionali e sono liberi di recedervi sulla base di condizioni prestabilite. In generale, il recesso avviene tramite notifica all’Istituzione e ha effetto un anno dopo la sua ricezione. Durante questo periodo transitorio, lo Stato è tenuto a rispettare le disposizioni dell’organizzazione internazionale e ad adempiere i propri obblighi nei suoi confronti in conformità con il trattato costitutivo. Nello specifico, a mio avviso, Mali, Burkina Faso e Niger intendono avvalersi dell’articolo 91 del Trattato costitutivo dell’ECOWAS del 28 maggio 1975 e ritirarsi dall’Organizzazione.
Il 16 settembre 2023 i tre Stati hanno firmato la cosiddetta “Carta di Liptako-Gouma”, dando vita all’Alleanza degli Stati del Sahel (AES); l’obiettivo è garantire la difesa collettiva delle loro popolazioni. L’iniziativa è nata dopo il ritiro del Mali dal G5 Sahel, avvenuto il 15 maggio 2022, sollevando interrogativi rispetto al suo futuro. Il G5 Sahel è un’organizzazione militare formata da Mali, Ciad, Burkina Faso, Niger e Mauritania per coordinare le attività politiche e militari di contrasto all’insorgenza jihadista nella regione.
Bamako ha formalmente motivato la sua decisione lamentando la mancanza di progressi dell’organizzazione nel raggiungimento dei suoi obiettivi. In realtà lo strappo tra Mali e gli altri membri del G5 ha origini politiche in quanto i suoi componenti non intendevano riconoscere il turno di presidenza di Bamako a causa della perdurante presenza al potere della sua giunta militare.

La defezione del Mali ha evidenziato la fragilità del G5 Sahel, rimasto in gran parte inoperoso dalla sua fondazione nel 2014, nonostante il suo tentato rilancio nel 2017. Ciò è dovuto agli insufficienti finanziamenti esterni, alle pressioni internazionali (in particolare degli Stati Uniti) e al non efficace sostegno della Francia.

Al contrario, l’AES è concentrata sulla regione Liptako-Gourma, nota anche come “zona dei tre confini”, una regione condivisa da Burkina Faso, Mali e Niger. Oltre ad essere ricca di risorse naturali come oro, diamanti, uranio, manganese, gas e petrolio, l’area è stata anche teatro di ricorrenti attacchi terroristici per oltre un decennio.

Gli obiettivi dichiarati dal trattato dell’AES vanno aldilà della sicurezza: i tre Paesi firmatari hanno espresso la volontà di promuovere “indipendenza, dignità ed emancipazione economica“. Questa posizione solleva interrogativi sulla possibile creazione di nuove istituzioni, soprattutto monetarie, in grado d’influenzare le riforme all’interno dell’Unione economica e monetaria dell’Africa occidentale (UEMOA) che riunisce otto Paesi che condividono la moneta comune FCFA.

Negli ultimi decenni si è assistito a numerose manifestazioni contro la Francia nei vari paesi del Sahel. Le ragioni alla base delle proteste sono il rifiuto della presenza militare francese in Sahel e il risentimento verso il suo sistema monetario FCFA.

Nel maggio 2020 il Presidente ivoriano Alassane Ouattara e il Presidente francese Emmanuel Macron hanno approvato ufficialmente la riforma del franco CFA (annunciata già dal dicembre 2019) riconoscendo che questa moneta venisse ormai sempre più “percepita come una delle vestigia della Françafrique”.

L’accordo che ne è scaturito tra il Tesoro francese e la Banca Centrale degli Stati dell’Africa Occidentale (BCEAO) ha comportato due cambiamenti principali: l’annullamento del versamento del 50% delle riserve valutarie della zona sul conto operativo del Tesoro francese e il ritiro della Francia dagli organi di governo della moneta, ovvero dal Consiglio di Amministrazione e dal Comitato di Politica Monetaria del BCEAO. D’altra parte, a mio avviso, la Francia continuerà comunque, almeno per il momento, a garantire il sistema FCFA.

Dopotutto la parola “Franco” oggigiorno è fortemente associata al retaggio della colonizzazione francese su questi Paesi, nonostante il tentativo di cambiare significato alla sigla. E, oltre al tema della sovranità monetaria, i critici del Franco CFA hanno ragione nel denunciare gli svantaggi economici di un tasso di cambio fisso con l’euro.

Per un ulteriore approfondimento rimando al mio articolo: il link sotto

Neocolonialismo monetario, la rivolta dei paesi africani contro il franco Cfa

Nel gennaio 2013 l’esercito francese intervenne in Mali: si trattòdella più grande operazione militare dai tempi della guerra d’Algeria. All’inizio, l’unico obiettivo della Francia erasostenere l’eventuale “Operazione di pace” delle Nazione Unite per ristabilire l’ordine a Bamako, dove i golpisti avevano preso il potere.

Prima però di tentare nuovamente la conquista dei territori del nord del Mali caduti nelle mani dei jihadisti e ristabilire l’ordine costituzionale a Bamako, l’esercito francese fece l’esatto contrario. Il tono marziale dell’Eliseo fu tanto più sorprendente se si considera che il presidente Hollande non aveva la reputazione di essere un combattente. Come il suo predecessore Nicolas Sarkozy, Hollande aveva ufficialmente proclamato la fine della “Francafrique” e adottato le parole d’ordine della comunità internazionale al fine di promuovere “soluzioni africane ai problemi africani”. In un simile contesto, l’idea non fu certo quella di vedere l’ex potenza coloniale scaricare migliaia di soldati per sopperire alle mancanze dei paesi del Sahel. Nel 2014 l’operazione Barkhane prese così il posto dell’operazione Serval.

Il 7 gennaio 2013 dei pick-up carichi di jihadisti giunsero da nord, provenienti dalle loro roccaforti di Timbuctù, Kidal e Konna, quest’ultima a poco meno di 700 chilometri dalla capitale maliana. Fu l’ultima chiusa strategica prima dell’assalto jihadista su Bamako. Per i francesi fu il momento di agire in fretta al fine di evitare un altro “27 settembre 1996”, cioè l’ingresso dei Talebani a Kabul.  Alla caduta di Bamako, infatti, avrebbe potuto seguire anche la caduta di capitali come Niamey, Ouagadougou, Nouakchott e, per dirla alla moda, l’intero Sahel sarebbe potuto cadere nelle mani di “Les Fous de Dieu”.

L’operazione Serval salvò il Mali dai suoi tormenti e il mondo occidentale dal pericolo jihadista. Almeno così la videro il presidente François Hollande e il suo ministro della difesa Le Drian, ma non tutti i partner della Francia la pensarono allo stesso modo. Mentre l’Unione Africana approvava l’intervento militare dell’ex potenza coloniale nella sua “pré carré” francofona, gli eserciti dei suoi stati membri non furono praticamente coinvolti sul terreno, ad eccezione del Ciad, il cui regime autoritario stava sfruttando l’occasione per migliorare la propria reputazione internazionale.

Il 12 gennaio 2013 il presidente Hollande dichiarò che “la Francia non ha altro obiettivo che la lotta al terrorismo”. In pratica i responsabili politici e militari francesi considerano Mauritania, Burkina Faso, Mali, Niger e Ciad legati a Parigi da accordi di difesa. Unica al mondo, tale definizione corrisponde al perimetro degli Stati membri del “Gruppo dei cinque” (G5 Sahel) che, dal 2015, sostituisce l’operazione Barkhane nella lotta ai gruppi terroristici nell’area.

Il presidente Hollande decise di organizzare un intervento che ritenne in grado di eliminare i jihadisti sulla base di un rapporto di forza militare molto sfavorevole agli insorti. Invece di ammettere che la Francia poteva solo sostenere un processo endogeno di risoluzione del conflitto, volle imporre la pace in base al capitolo 7 della Carta delle Nazione Unite che autorizza l’applicazione della pace, e non solo le missioni di pace. Il risultato è noto: i jihadisti non hanno smesso di combattere e gli accordi di pace di Algeri, firmati nel 2015, non sono stati attuati dal governo maliano sotto influenza francese.

Altre spiegazioni, a mio parere meno convincenti, sono state date per l’operazione Serval del 2013. Agli occhi di molti africani, obiettivo della Francia era mettere le mani sul petrolio che nel nord del Mali non è mai stato scoperto in quantità sufficienti per essere commercializzabile o addirittura esportabile. In Niger tanti pensano invece che la Francia volesse solo difendere Areva, la multinazionale estrattrice di uranio in quel territorio.

L’operazione Barkhane ha mostrato chiaramente i limiti e le contraddizioni di un discorso marziale volto a dichiarare guerra al terrorismo.

In un simile contesto, credo sia sorprendente il fatto che gli ufficiali francesi o americani considerino il rafforzamento della cooperazione militare una possibile soluzione. Gli eserciti africani sono forse deboli e corrotti? Hanno perso la battaglia dei cuori e delle menti contro i jihadisti? Oppure hanno alimentato i conflitti uccidendo i civili? Per loro pare non importi.

Gli ufficiali occidentali ritengono necessario rafforzare le capacitàdegli eserciti africani, dare loro più soldi, formarli adeguatamente ed equipaggiarli al meglio. Il discorso penso sia ormai noto: gli africani sono incapaci di prendere in mano il proprio destino. Armato della sua superiorità tecnologica, l’Occidente insegnerà loro a combattere, anche se la soluzione sembra essere prima di tutto politica in quanto mira a porre fine all’impunità di cui godono le truppe che commettono atrocità sul campo.

In realtà, il bilancio della cooperazione militare nel Sahel è stato estremamente deludente. La Francia addestra gli eserciti della regione da sessant’anni, ma a quale scopo? La situazione nel Sahel sarebbe stata peggiore senza la cooperazione militare con i paesi sviluppati? È difficile dirlo. Nella migliore delle ipotesi, tale cooperazione a volte ha dato all’Occidente la possibilità di moderare la brutalità degli eserciti locali. Nel peggiore dei casi, è servita a consolidare il potere repressivo dei regimi autoritari.
Un esempio particolarmente evidente riguarda il Ciad: uno Stato considerato democratico dall’Occidente, la cui presidenza però, dopo la morte del Capo di Stato Idriss Deby (al potere dal 1990), è stata tramandata direttamente al figlio Mahamat Déby Itnosenza passare dalle elezioni.

In nome della lotta al terrorismo e della necessità di stabilizzare la regione, la Repubblica francese si è compromessa molto con i regimi corrotti e autoritari. Non sorprende quindi che le popolazioni del Sahel la vedano come una potenza coloniale responsabile di tutte le loro disgrazie. In Sahel le voci contro la Francia ormai si stanno moltiplicando.

Sono lontani i giorni in cui, nel 2013, la popolazione di Timbuctù acclamava il presidente François Hollande con la bandiera francese.  Da allora sono proliferati i graffiti antifrancesi e le manifestazioni davanti all’ambasciata francese a Bamako, a Niamey e a Ouagadougou. In Sahel, la Francia ha battuto il record di longevità dell’Armata Rossa in Afghanistan. La sua presenza militare non ha risolto i problemi, è sempre più criticata e considerata una forza di occupazione; provoca inoltre occasionalmente degli scontri con la popolazione locale, scontri che potrebbero degenerare in qualsiasi momento. A questo malcontento della popolazione locale d’altro canto si è già assistito nei vari momenti dei colpi di stato nei paesi del Sahel.

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