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Africa, Mario Giro: un ‘atlante’ delle guerre per conoscere e capire il continente

Oggi, nello spazio delle interviste proponiamo un colloquio realizzato da con Mario Giro, membro della Comunità di Sant’Egidio, docente all’Università per Stranieri di Perugia e in passato viceministro degli Esteri.
Ha recentemente pubblicato il volume Guerre nere. Guida ai conflitti nell’Africa contemporanea (Guerini e Associati).

Professore, perché le attuali guerre in Africa sono “nere”?

Nero non è solo il colore della pelle di chi combatte e muore, spesso in giovanissima età. Queste guerre sono “nere” nel senso di oscure, assai poco conosciute e studiate in Occidente – in Italia – mentre dovrebbero esserlo.

Il mio tentativo è spiegare come queste guerre siano – contrariamente all’immaginario – del tutto moderne, affatto arcaiche e tribali, cioè tanto politiche quanto altre guerre. L’Africa è un continente profondamente attraversato dalla globalizzazione, non è in ritardo con la storia che l’occidente europeo ha avviato col liberismo e la caduta delle frontiere finanziarie e commerciali.

La globalizzazione è un sistema prodotto dalle liberaldemocrazie che ha avuto almeno due effetti evidenti.

Il primo è che noi occidentali abbiamo perduto il controllo del sistema in favore dell’Asia e di altri continenti.

Il secondo effetto è la separazione tra democrazie e mercato, per cui il modello cinese – ancora in forte sviluppo – può essere, al tempo stesso, liberista in economia ma statalista (comunista), non democratico e sovranista in politica. Vediamo come l’iper-liberismo economico possa andare a braccetto con governi autoritari non solo asiatici. Ciò significa che la democrazia, che ci eravamo proposti di esportare nel mondo con la globalizzazione, sta facendo ovunque molti passi indietro, per esempio in Asia e appunto in Africa.

Le responsabilità dell’Europa

Nel processo di globalizzazione l’Africa è divenuta letteralmente la posta in gioco. È al centro di una contesa di interessi molteplici. I leaders africani, sottoposti a varie pressioni sulla spesa pubblica – con conseguenti tagli su welfare, scuola, sanità ecc. –  si trovano in una situazione paradossale. Per cercare di reggere in queste condizioni diventano facilmente molto autoritari. Ecco perché a loro conviene aderire al modello cinese.

La Cina, peraltro, ha avuto il merito di rimettere al centro della geopolitica l’Africa, da cui l’Europa in particolare si era allontanata. L’Africa si è perciò rivolta ad altri interlocutori. La Cina vi ha investito molto. All’inizio ha regalato; ora sta facendo prestiti. Ma, rimettendo l’Africa al centro dell’attualità globale, ha trovato un grande spazio geopolitico lasciato vuoto dagli occidentali. Così si favorisce il modello liberista e autoritario che va di moda oggi.

La verità che dovremmo aver appreso da questa storia è che noi occidentali – in particolare noi europei – non abbiamo davvero consapevolezza di quali effetti e quale impatto abbia il puro sistema liberista sulle società e sui paesi fragili. A ben vedere l’America Latina ce lo ricorda da decenni: il materialismo e la competitività hanno un impatto violento. In Europa tutto questo è ammortizzato dal welfare e dalla cultura democratica.

Al contrario i latino-americani – oggi insieme agli asiatici e agli africani – ci parlano da tempo di multinazionali, di mercato libero spinto all’eccesso, di ossessione nella ricerca del profitto, di sfruttamento della terra e dei giacimenti: ci testimoniano una realtà durissima che noi in Europa conosciamo poco e a cui non abbiamo mai voluto guardare sino in fondo. Oggi abbiamo un’opportunità di conoscenza e coscienza che ci offre il papa argentino.

Papa Francesco ha messo ben in evidenza che l’economia globalizzata è molto violenta in gran parte del mondo: provoca enormi crisi ecologiche e sociali, obbliga intere popolazioni a spostarsi, distrugge le culture originarie assieme alla natura, non guarda in faccia nessuno. Le encicliche Laudato si’ e Fratelli tutti ce lo dicono con chiarezza.

Le ragioni delle guerre africane

Nel mio libro Guerre Nere provo a spiegare come le guerre africane siano il frutto di questo stato di cose. Faccio un esempio: le guerre in Africa non terminano mai perché i tanti attori militari – in particolare quelli privati, i cosiddetti contractors ma anche le milizie – sono in grado di mutare continuamente pelle, di trasformarsi, di diventare, da ribelli, trafficanti e contrabbandieri, persino di travestirsi da commercianti del tutto legali.

Il mimetismo è una caratteristica spiccata della globalizzazione: una cultura della violenza diffusa si afferma in un contesto fragile in cui lo Stato non c’è più. La stessa realtà – sempre armata e violenta – può oggi assumere sembianze diverse. Paradossalmente ciò vale anche per il jihadismo o per ijihadismi in Africa. Ci sono capi di milizie jihadiste che si mimetizzano: passano dal terrorismo armato al traffico di esseri umani, per poi occuparsi di droga e quindi di contrabbando o altri commerci illegali, per trasformarsi in contrabbandieri o ribelli etnici: infine, tornano, prima o poi, a fare il jihad. Tutto questo è il portato di una globalizzazione che rende fluide le società, fluide le appartenenze, porose le frontiere, mutevoli le appartenenze e le identità.

In questo modo risulta persino paradossale parlare di guerre etniche proprio nel momento in cui la forza delle etnie sta venendo meno in tutta l’Africa. Ormai le strutture tradizionali sono state travolte dalla globalizzazione e anche i giovani africani sono diventati più individualisti: non ascoltano più i loro anziani che hanno perso autorevolezza.

Tale trasformazione ha due volti: la fine dell’Africa tradizionale ma anche di quella oppressiva e patriarcale. I giovani, ad esempio, emigrano per decisione individuale e contro il parere delle loro famiglie, mentre una volta erano gli anziani del villaggio o del quartiere a decidere l’ordine con cui i ragazzi sarebbero partiti. Un tale individualismo – nuovo per l’Africa – viene da quella cultura che noi definiamo globalizzata e liberalizzata.

Si tratta delle stesse dinamiche che riguardano i giovani occidentali: sia di quelli che vanno in cerca di lavoro all’estero ma anche di quelli che hanno deciso di andare a combattere per il jihadin Siria o in altre parti del mondo – i foreign fighters – molto spesso senza essere neppure musulmani. Tutto si confonde e si ibrida: oggi, ad esempio, nel nord del Mozambico è in corso una ribellione jihadista a cui aderiscono anche giovani cristiani.

Globalizzazione e armi

Per capire quel che sta accadendo in Africa dobbiamo leggere e interpretare le dinamiche di fondo della globalizzazione. Non è vero che si tratta di un fenomeno soltanto economico: si tratta di un fatto culturale che trasforma le mentalità, che provoca una mutazione antropologica. Non basta dire che i ragazzi africani emigrano per povertà: emigrano perché pensano che sia un loro diritto spostarsi nel mondo alla ricerca delle opportunità offerte dalla globalizzazione.

È in corso anche uno flusso migratorio di giovani africani in Cina: mentre l’Europa chiude le frontiere, la Cina si apre. Oggi non c’è neppure bisogno di visto di ingresso per gli africani che vogliono recarvisi.

  • Da dove arrivano le armi per fare le guerre?

Non c’è bisogno di cercare lontano. Le armi in Africa sono già ovunque. L’arma classica è il kalashnikov russo, prodotto in tanti paesi dell’ex orbita sovietica. Gli specialisti sanno riconoscere se un kalashnikov è stato prodotto in Cina, in Albania, in Europa dell’Est o chissà dove. Ci sono tante armi perché ci sono state tante guerre dagli anni ’70 ad oggi. L’ultima importante ondata di armi che si è riversata sull’Africa – in particolare sull’Africa occidentale – si è avuta in concomitanza con la guerra di Libia che ha aperto gli arsenali di Gheddafi.

  • Quanto le guerre sono determinate dalla corsa alle materie prime?

Le guerriglie africane nascono con pochi soldi e pochi uomini armati, più che dalla presenza di materie prime, che servono soprattutto per prolungare i conflitti. Non ci sono particolari condizioni di attivazione, il che rende tali guerre ancora più pericolose. Le guerre alimentano le guerre. Come tutto, anche la guerra si è privatizzata: in Africa si può essere guerriglieri, provider di sicurezza, organizzatori di rackets, controllori di miniere ecc., il tutto allo stesso tempo.

Si è ingenerata una sorta di “borghesia della guerra” o di classe media militarizzata per cui la stessa appartenenza a schieramenti ha poco senso. Ormai sono tanti i giovani che, una volta arruolati, vivono di guerra, continuando a combattere per il miglior offerente. Si può persino cambiare “credo” e assumere l’etichetta del jihad in zone in cui non ci sono mai stati musulmani (è il caso dell’ADF ugando-congolese). Guerriglie che sono nate su base etnica, si sono poi trasformate su base ideologica e “religiosa”. Il jihad è senz’altro il prodotto antagonista, la grammatica di ribellione più attraente del momento.

Dobbiamo leggere i fenomeni anche con la lente sociologica. Non basta guardare alle risorse minerali e alimentari. Non basta dire che si combatte per il coltan, per il petrolio, per i diamanti, per l’oro, per il cacao ecc. Il coltan – tanto ricercato oggi per la produzione di strumenti informatici – serve a perpetuare una guerra, ma essa è iniziata per altri motivi, in genere politici o identitari.

Ovviamente nella presenza di risorse da sfruttare o da saccheggiare c’è una parte della verità, ma non sono tali situazioni materiali, al principio, a far scattare una guerra. Per capire bisogna guardare alla sociologia di ogni luogo, alla storia delle popolazioni, alla biografia delle persone, alla politica nel contesto geopolitico.

Economia e politica
  • Come sta andando, in genere, l’economia africana?

L’economia africana, per certi versi, stava andando bene prima della pandemia: una crescita tra il 4% e il 6% all’anno da vent’anni. Certamente esistevano grandi problemi di distribuzione equa della ricchezza ma almeno il PIL cresceva. Ora questo trend si è arrestato, quindi la situazione sta peggiorando. Dobbiamo verificarne le conseguenze. La prima ondata del COVID è stata leggera per l’Africa, ma sta causando forte preoccupazione la variante sudafricana del virus. Inoltre, il problema non è tanto un’Africa che cresce di meno, bensì la direzione nella quale sta crescendo.

Noi europei dovremmo capire che ci conviene un’Africa democratica e vicina all’Europa. Per ottenerlo dovremmo impegnarci molto di più: non solo denari e aiuti, ma anche e soprattutto attenzione, impegno, prossimità, partenariato come amicizia tra pari. Se restiamo ossessionati dai migranti chiudendoci nelle nostre frontiere, l’Africa sceglierà un altro modello, probabilmente quello cinese. In parte lo sta già facendo.

  •  Quanta parte ha la corruzione?

 Si parla spesso della corruzione, ma ciò che più pesa non è tanto la grande corruzione, quella delle grandi commesse o dei grandi appalti che esiste ovunque, anche nei nostri paesi occidentali. Ciò che fa davvero male all’Africa è la micro-corruzione quotidiana come quella praticata, ad esempio, dal poliziotto che ti ferma per strada, dall’insegnante che chiede soldi o favori sessuali o dall’impiegato dietro lo sportello che si fa pagare per qualsiasi documento.

Gli stipendi medi dei dipendenti pubblici in Africa sono irrisori: in molti paesi si tratta di pochi euro al mese. È ovvio che gli impiegati pubblici cerchino altri modi per vivere e si rifacciano sulla popolazione. Occorre contrastare tale deriva.

La micro-corruzione dipende evidentemente dalla debolezza e dalla fragilità dello stato, ma anche dal disinteresse delle élitespolitiche, che vivono di affari privati. Chi conosce l’Africa ha visto in questi ultimi venti anni privatizzarsi quasi tutto. Ci sono scuole, università, ospedali privati. Il mercato si prende tutti gli spazi. Perciò il potere pubblico – che dovrebbe pensare agli ultimi, ai più poveri, a quelli che non possono pagare – di fatto li abbandona a loro stessi. Alle esigenze popolari, i governi stanno rispondendo con un supplemento di autoritarismo e di violenza.

Jihadismo in Africa
  • Quali sono le origini del jihad in Africa?

Il jihadismo è il frutto finale di una riforma radicale dell’Islam. Certi predicatori, fin dagli anni ’70 – ma soprattutto negli anni ’80 e ’90 – hanno cominciato a dire che la religione doveva essere rinnovata, che i vecchi ulema andavano rottamati perché compromessi col potere dei regimi militari. Per anni i predicatori di tale tendenza, hanno detto che questo era il solo modo per liberarsi dall’ingiustizia e dalla corruzione.

All’inizio il loro discorso si presentava in maniera positiva: secondo costoro occorreva tornare all’Islam dell’epoca d’oro, quello dei primi quattro califfi “ben guidati”. Ovviamente l’epoca d’oro è mitica, non è mai esistita. Questi nuovi predicatori, in ogni caso, sono riusciti ad imbastire la narrazione di un Islam puro, delle regole chiare, non corrotto dal potere, ovviamente molto intransigente. Tale costruzione ideologica è divenuta il modello per un nuovo stato islamico – come ha cercato di essere l’Isis – intollerante contro tutto ciò che è diverso da tale versione dell’islam, quindi contro i musulmani corrotti, i regimi venduti, gli stranieri, gli ebrei, i cristiani, le altre minoranze e così via.

A un certo punto questa tendenza riformista ha gettato la maschera: per ottenere la purezza – hanno detto – occorreva la violenza, cioè il jihad armato. Da questo ambito sono nati tutti i gruppi terroristici che conosciamo. Poi questo morbo si è esteso oltre i paesi arabi, inclusa l’Africa.

I capi del jihadismo non sono particolarmente preparati come teologi. Sono più preparati ad organizzare la logistica militare della guerriglia o della guerra segreta terroristica. A loro non interessa davvero la religione: manipolano l’Islam. Bin Laden era un ingegnere civile; il suo successore al-Zawahiri, un medico egiziano e grande organizzatore del terrorismo. Al-Baghdadi – fondatore dell’Isis – aveva effettivamente studiato all’università islamica di Bagdad, ma non era la religione in quanto tale ad interessargli, bensì la religione in quanto collante della sua “rivoluzione” contro i regimi arabi tradizionali, e poi contro l’Occidente.

  • Da dove vengono i soldi per le truppe jihadiste?

Nel caso di al Qaeda cioè di Bin Laden, i soldi venivano originariamente da una parte della famiglia. Tuttora i Bin Laden appartengono ad una grande famiglia saudita di ricchi imprenditori e proprietari immobiliari. In tutto il Golfo è presente la Bin Laden Corporation. Molti principi sauditi poi – non tanto l’Arabia Saudita in quanto stato ma alcuni personaggi individualmente – hanno finanziato la costruzione di moschee nel mondo per le comunità musulmane, così come certe imprese terroristiche.

Vero è che vi sono sospetti di finanziamento di questo o quel gruppo anche da parte di alcuni Stati, ma sostanzialmente siamo di fronte a movimenti rivoluzionari autorganizzati e autofinanziati. L’Isis ha fatto leva sulla paura dei sunniti iracheni e siriani nei confronti degli sciiti e degli alauiti. L’assurdo è che in Iraq gli occidentali hanno ceduto potere agli sciiti con la defenestrazione di Saddam, mentre in Siria hanno fatto l’opposto sostenendo la guerriglia sciita contro il filo-iraniano Assad.

Una politica incomprensibile e senza logica che, alla fine, si è rivelata, in entrambi i casi, fallimentare. In Iraq i movimenti del jihad hanno utilizzato il sentimento sunnita e hanno fatto bottino delle armi del disfatto esercito iracheno, soprattutto quando gli americani hanno sciolto d’imperio l’esercito iracheno e il partito Baath. Così militari e membri di apparato sono passati, armi e bagagli, all’Isis.

In Siria è avvenuto qualcosa del genere, ma al contrario: l’Occidente ha finanziato gruppi jihadisti e, a un certo punto, si è trovato alleato oggettivo di al-Qaeda contro l’Isis. Un paradosso totale. Questo spiega, in buona misura, la questione dei finanziamenti. Poi, naturalmente, sono state messe le mani sul petrolio: a Mosul – nel nord Iraq – l’Isis estraeva petrolio per venderlo all’estero. L’Isis è riuscita persino a vendere pezzi archeologici saccheggiati dai musei iracheni.

Boko Haram
  • Cos’è Boko Haram? Si tratta di una realtà associata al jihad?

All’inizio Boko Haram era l’espressione tipica dell’effervescenza religiosa nigeriana del nord, terra a maggioranza musulmana. La storia della Nigeria settentrionale è piena di polemiche sulla shariatra i numerosi stati della federazione. Negli ultimi trent’anni erano già nati vari gruppi estremisti e riformisti dell’Islam. Boko Haram era uno di questi gruppi dentro un mondo pulviscolare di sette musulmane. Boko Haram, ad un certo punto, si è ultra-radicalizzato a causa dell’uccisione extragiudiziale del leader del movimento da parte della polizia.

In questa maniera Boko Haram si è trasformato da setta millenarista estremista di terrorismo violentissimo. La Nigeria del nord è molto diversa da quella del sud, dove c’è il petrolio e dove esiste una classe di ricchi imprenditori e commercianti. In un ambiente povero c’è più facilità di reclutamento in specie tra i giovani. Così è stato facile far scattare un meccanismo micidiale in cui la popolazione è stata stretta nella morsa tra forze di sicurezza (avvezze a reprimere alla cieca) e violenza dei Boko Haram.

Nei villaggi arriva l’esercito e accusa gli abitanti di essere filo ribelli di Boko Haram, uccide e brucia tutto. Arrivano poi i Boko Haram e fanno la stessa cosa. Intere popolazioni vengono prese in ostaggio. Un altro aspetto che caratterizza Boko Haram è la migrazione.

I combattenti Boko Haram si sono spostati sotto l’incalzare dell’esercito nigeriano: da fenomeno nato nelle città, Boko Haram è migrato verso la foresta nigeriana di Sambisa, poi verso le montagne Mandara, a cavallo con il Camerun.

Qui è gemmato un secondo tipo di Boko Haram, legato all’economia di frontiera che si alimenta di contrabbando. Il movimento ha poi raggiunto il lago Ciad, inserendosi nel mondo complicatissimo dell’economia che gravita attorno al lago, tra pescatori autoctoni, commercianti haussa, agricoltori e pastori transumanti peul-fulbé. Un vero universo caotico in cui è difficile mettere le mani.

Il jihadismo si è stabilito anche nel Sahel, ove i capi sono tuareg. Mi sembra importante evidenziare la fase di passaggio del jihad arabo dentro il mondo africano, passaggio di cui l’occidente sostanzialmente non si è accorto. Si poteva evitare che ciò accadesse. Il mondo musulmano africano era tollerante. Nella stessa famiglia potevano convivere un fratello musulmano, uno cristiano e uno animista, senza problemi.

Poi tutto si è radicalizzato rendendo sempre più difficile la convivenza e mettendo in crisi l’Islam tradizionale. Ora è in atto un secondo tempo: dopo essersi inserito, il jihad africano si sta “contaminando” e dividendo. Questo spiega perché nel Sahel si stiano attualmente scontrando due gruppi islamisti di diverso segno: lo stato islamico del “Grande Sahara” che fa riferimento all’Isis e il “Gruppo islamico di sostegno all’Islam e ai musulmani” (GSIM) che fa riferimento ad al-Qaeda.

Il vero motivo dello scontro sta nel fatto che lo stato islamico del “Grande Sahara” accusa il GSIM di essersi ormai contaminato con elementi africani e quindi di non essere più puramente islamico. Il fenomeno di “inculturazione” sta perciò dividendoli.

Alcuni gruppi si sono arresi al governo maliano. Non c’è nulla di tradizionale in tutto questo: i cambiamenti sono chiaramente determinati dalle rapide mutazioni sociologiche e antropologiche della globalizzazione.

  • Perché giovani e meno giovani africani aderiscono al jihad e alle sette?

L’Islam radicale si presenta bene perché inizia ad occuparsi capillarmente della gente, da cui i governi centrali sono lontanissimi. Mette in piedi un suo welfare per le popolazioni; appare instauratore di una giustizia più giusta; si fa paladino contro la corruzione. Poi però le cose cambiano e iniziano le imposizioni. I jihadistipretendono di cambiare da un giorno all’altro le abitudini della gente del luogo; esigono che i ragazzi africani non giochino a pallone, che non ascoltino musica o che non ballino.

Tutto ciò in Africa nera non è possibile. Così come non è immaginabile che le donne africane indossino il velo integrale o, addirittura, i guanti neri. Il jihadismo esporta un modello standardizzato che, alla lunga, non può reggere. Il jihad ha preso piede in Africa ed è facile prevederne la mutazione. Ma tale crisi non porterà certo alla situazione precedente: condurrà piuttosto ad evoluzioni imprevedibili e incontrollate.

Religiosità e Chiesa

Il jihadismo si presenta come un nuovo prodotto religioso. Per certi versi c’è un’analogia con il cristianesimo pentecostale: un movimento di riforma del cristianesimo a partire dal ceppo protestante, anche se non violento. I pentecostali o neo-evangelicali iniziano ad essere numerosi anche in Africa. Propagandano una religione moralista, ridotta all’osso dal punto di vista teologico/sacramentale, proiettata nella teologia della prosperità che ben si adatta alla mentalità della globalizzazione.

Non a caso il cristianesimo pentecostale attecchisce facilmente nelle classi medie africane in via di arricchimento. Il rovescio della medaglia è, naturalmente, l’assenza di tolleranza e l’impossibilità di dialogo. Tale tipo di religiosità cristiana in Africa, nell’era della globalizzazione, fa proseliti soprattutto tra i nuovi ricchi, mentre l’islam radicale li fa soprattutto tra i poveri, tra gli ultimi e gli scartati.

  • In questo quadro di affari e di violenza, qual è il posto della Chiesa cattolica?

La Chiesa cattolica africana ha avuto troppa paura dell’Islamsenza vedere che quest’ultimo era sfidato dai radicali e dai jihadisti. Non si è nemmeno troppo resa conto del pericolo rappresentato dai neo-pentecostali o dai neo-evangelicali, che pure stavano erodendo le Chiese protestanti storiche. Occorreva contrastare subito la “teologia della prosperità”. A lungo si è pensato che questi movimenti facessero proseliti solo regalando soldi, ma non era vero.

Al contrario ci sono molti predicatori neo-pentecostali che si sono arricchiti spillando soldi da povera gente in cerca di calore umano e di spiritualità. Per contrastare questa deriva è necessario occuparsi di più dei poveri e della preghiera. Oggi la Chiesa cattolica ha la responsabilità storica di difendere l’Islam tradizionale da quello jihadista mediante il dialogo. Così potrà ritrovare in pieno lo spirito missionario, quello della Chiesa in uscita, come dice papa Francesco. Paolo VI sosteneva che l’Africa doveva essere missionaria di sé stessa: questo è ancora il futuro.

  • Cosa possono fare le Organizzazioni non governative (ONG)?

Le ONG dovrebbero cercare partner locali. La rinascita della società è l’ultima speranza di democrazia, prima che l’Africa sia totalmente presa dai modelli autoritari. La vera rivoluzione può venire solo dal basso cioè da autonome organizzazioni della società che non siano solo il franchising o il prolungamento di quelle occidentali.

Va aiutato e sostenuto tutto ciò che riguarda lo stato di diritto, spiegando che la democrazia non è solo una questione di elezioni, ma anche di magistratura libera e indipendente, di distinzione di poteri tra esecutivo, giudiziario e legislativo, di ruolo del parlamento, di stampa indipendente, di libertà di associazione, di sindacati, insomma di tutto ciò che rende una democrazia davvero completa.

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