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Sudan, massacri e stupri di massa in Darfur: atrocità senza fine delle Forze di supporto rapido

Massacri a sfondo etnico, stupri di massa, bambini rapiti per farne piccoli soldato e soppressi se non “addestrabili”. Questi sono solo una parte dei crimini disumani  perpetrati dalle  Forze di supporto rapido (RSF) e dalle milizie alleate, che combattono contro l’esercito regolare del Sudan.
Le cifre attuali parlano di migliaia di civili uccisi, centinaia solo nel Darfur occidentale a inizio novembre.
A denunciare le ultime atrocità del conflitto ripreso lo scorso 15 aprile è Human right watch che ha documentato anche saccheggi, aggressioni e sparizioni forzate di decine di membri della comunità Masalit ad Ardamata, nel Darfur occidentale. Il lungo rapporto di diffuso oggi documenta i passaggi di questa guerra poco raccontata dai media ma per la quale gli esperti delle Nazioni Unite hanno paventato il rischio del genocidio. Il conflitto è scoppiato il 15 aprile tra le due forze militari del Sudan: quelle armate sudanesi e quelle di supporto rapido che tra aprile e giugno, assieme alle milizie alleate hanno condotto ondate di assalti contro i quartieri a maggioranza Masalit di El Geneina prendendo di mira i civili su larga scala.
Gli ultimi episodi di uccisioni mirate a livello etnico da parte delle Forze di supporto rapido nel Darfur occidentale ha tutte le caratteristiche di una campagna organizzata per commettere atrocità contro i civili Masalit” scrive nel report Mohamed Osman, ricercatore presso Human Rights Watch.

I dati sono confermati anche dalle Nazioni Unite che parlano di circa 800 persone uccise durante gli attacchi di inizio novembre ad Ardamata.
“Gli osservatori locali hanno intervistato i sopravvissuti arrivati in Ciad e hanno stimato il bilancio delle vittime, principalmente civili, tra 1.300 e 2.000, comprese dozzine di persone uccise sulla strada verso il confine. Almeno ottomila sudanesi sono fuggiti in Ciad e si sono aggiunti ai 450 mila sfollati, per lo più donne e bambini, scappati dal Darfur occidentale, in particolare tra aprile e giugno” spiegano i ricercatori di Human Rights Watch che hanno intervistato 20 persone di etnia Masalit fuggite da Ardamata nel Ciad orientale tra l’1 e il 10 novembre, tra cui 3 soldati delle forze armate sudanesi (SAF), che hanno raccontato l’ondata di omicidi, di bombardamenti, di detenzioni illegali, di violenza sessuale, di maltrattamenti e di saccheggi.
“Abbiamo visionato con attenzione otto decine di video e immagini pubblicate sui social media che mostrano le forze di supporto rapido detenere oltre 200 uomini e ragazzi ad Ardamata. Un video mostra i combattenti che picchiano un gruppo di uomini. Le immagini satellitari scattate la prima settimana di novembre evidenziano l’impatto dei bombardamenti sulle infrastrutture civili e militari, i saccheggi e gli incendi dolosi all’interno e nei dintorni del campo sfollati di Ardamata, nonché corpi abbandonati lungo la strada. Le ricerche in corso e i resoconti dei media locali accusano le RSF di avere ucciso migliaia di civili, bruciato interi quartieri e siti in cui gli sfollati avevano trovato rifugio a El Geneina e violentato donne e ragazze” si legge ancora nel report.
Secondo i sopravvissuti, il 1° novembre durante gli scontri tra le forze di supporto rapido e le forze armate sudanesi alcuni Masalit si sono uniti alla lotta al fianco delle forze armate sudanesi. Questo ha scatenato la ritorsione contro l’intera etnia.
Dal 4 novembre le Forze di supporto rapido, dopo avere preso il controllo della base delle forze armate sudanesi, hanno iniziato ad attaccare i campi di sfollati, abitati per lo più dai Masalit e da altri gruppi non arabi. Hanno sparato ai civili mentre fuggivano e hanno giustiziato le persone nelle loro case, nei rifugi e nelle strade. Gli aggressori hanno ucciso principalmente uomini Masalit, ma non hanno risparmiato neanche le comunità Tama ed Eringa, anch’esse non arabe
.Gli attacchi deliberati contro la popolazione civile, comprese le esecuzioni extragiudiziali, i maltrattamenti di civili e di tutti coloro che non partecipano ai combattimenti, come i detenuti e i feriti e lo sfollamento forzato, sono atti che violano il diritto internazionale e possono essere perseguiti come crimini di guerra. Gli omicidi, gli stupri, le torture, le deportazioni, le persecuzioni e gli altri reati commessi come parte di un attacco diffuso o sistematico contro una popolazione civile sulla base di una politica governativa costituiscono, invece, crimini contro l’umanità, specifica HRW.
Il 16 novembre il Sudan ha chiesto all’ONU di mettere la parola fine alla missione politica nel Paese. Il giorno successivo, il Segretario generale delle Nazioni Unite ha nominato un inviato personale in Sudan, ma in pratica questo cambiamento riduce significativamente il controllo delle Nazioni Unite sulla situazione.
Il Consiglio di Sicurezza, sostiene Human Rights Watch, deve “invece considerare tutte le opzioni per prevenire ulteriori atrocità e proteggere le popolazioni civili. Come primo passo, i membri del Consiglio di Sicurezza dovrebbero organizzare una visita nel Ciad orientale per incontrare i sopravvissuti alle attuali atrocità in Darfur”.
Bisognerebbe poi sanzionare chiunque violi l’embargo sulle armi imposto dal Consiglio di Sicurezza al Darfur dal 2004. Anzi,  conclude HRW suggerendo che sia esteso fino a coprire l’intero paese.
Il tutto dovrebbe essere affiancato dal sostegno concreto dell’Onu alle indagini avviate dalla Corte penale internazionale sui crimini perpetrati in Darfur.

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