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Sudan, la guerra con migliaia di morti che il mondo si ostina a ignorare

Solo chi è stato sfiorato dalla brezza serale del Harmattan, che raddolcisce la temperatura dell’aria lungo il Nilo, lì dove il Bahar al Jabal, ovvero “il fiume della montagna”, raggiunge Khartoum, unendosi al Nilo Azzurro proveniente dell’Etiopia generando la confluenza che segna l’inizio del più lungo fiume del mondo, può sentire nel profondo il dolore per la distruzione di questi mesi.

Khartoum, la capitale del Sudan, è ormai ridotta a un cumulo di macerie.  L’aeroporto internazionale semplicemente non esiste più: le immagini satellitari ci mostrano un’unica, immensa macchia nera.

Fa male, molto male, soprattutto se si pensa che le decine di migliaia di morti della guerra civile in atto nel paese sono ignorate da gran parte della comunità internazionale.

La situazione in Sudan è oltre il limite del disastro.

A sette mesi e mezzo dallo scoppio del conflitto tra l’esercito regolare (Saf) e i miliziani delle Forze di intervento rapido (Rsf), fino ad allora alleati nella giunta militare che governava il paese, la crisi ha raggiunto la gravità temuta dagli analisti e dai conoscitori del paese e descritta dal segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, catastrofica.

Nelle scorse ore il vice rappresentante speciale dell’ONU in Sudan, Clementine Nkweta-Salami, l’ha definita “la crisi che più velocemente si aggrava tra le tante in atto nel mondo.

Quasi cinque milioni di sfollati, quattro volte tanto bisognosi di aiuti alimentari e assistenza sanitaria, i numeri di una crisi devastante… ma finora è stato possibile attuare interventi umanitari “solo” per 3 milioni e 600 mila.

I combattimenti, dapprima concentrati nella capitale, Khartoum, si sono estesi in  tutto il territorio sudanese.

Scarseggiano ovunque cibo, acqua e carburante, con un impatto terribile sulle popolazioni intrappolate in aree i accessibili, in particolare nel Darfur meridionale. Ma anche il rifornimento dei mercati nel resto del paese è pressoché nullo.

Nelle ultime settimane il quadro si è di aggravato ulteriormente, tanto che migliaia di persone hanno ripreso la via dei campi profughi della limitrofa Etiopia, da cui erano tornati dopo la caduta del regime islamista del Partito del congresso nazionale (Ncp), guidato dall’ex presidente dittatore Omar Hassan al-Bashir nell’aprile del 2019.

Ma è ancora una volta ilDarfur, dove si è consumato il genocidio di 400 mila persone, a pagare il tributo di vittime maggiore,

Come era inevitabile i combattimenti hanno assunto i connotati etnici che avevano già caratterizzato il conflitto nella regione nel primo decennio di questo secolo.

Le Rsf hanno attaccato in modo particolare il gruppo dei Masalit, agricoltori stanziati nel Darfur occidentale, mettendo a ferro e fuoco la capitale, Geneina, uccidendo il governatore e numerosi altri leader comunitari e tribali, insieme a migliaia di normali cittadini, tra cui numerosi bambini.

Dal Darfur occidentale i combattimenti si sono estesi alle altre parti della regione. Sono stati presi di mira soprattutto i mercati e i campi in cui risiedevano ancora centinaia di migliaia di profughi dello scorso conflitto.

Khartoum sempre al centro del conflitto

A Khartoum i combattimenti non si sono mai completamente interrotti, in una dinamica perversa per cui le Rsf occupavano i quartieri residenziali, per razziarli ma soprattutto per farsi scudo della popolazione; mentre l’aviazione militare li bombardava incurante dei danni ai civili e alle infrastrutture della loro stessa capitale.

Solo a Khartoum le vittime dei combattimenti scoppiati a metà dello scorso aprile sono almeno diecimila. Ad esse vanno aggiunti i morti per epidemie, fame e altre cause legate al conflitto.  

Degli oltre cinque milioni e mezzo di sfollati i n milione e 100 mila ha oltrepassato i confini trovando asilo in Sud Sudan, Repubblica Centrafricana, Egitto, Etiopia e soprattutto Ciad.

Particolarmente preoccupante è la situazione sanitaria, oltre il 70% delle strutture sono inagibili o completamente distrutte.

Impossibile, dunque, contenere la diffusione di epidemie come quella di colera nel campo profughi di Gedaref, nell’est del Sudan, ma che ha interessato anche Khartoum dove si contano un centinaio di vittime e migliaia di casi,

Il tutto mentre  piogge e inondazioni flagellano sette dei diciotto stati federali.

Una situazione così devastante non si era mai verificata, neanche nella fase più cruenta del conflitto nel Darfur.

Eppure il Sudan resta una crisi dimenticata. Ignorata da quella comunità internazionale che non ha creduto abbastanza nei sogni dei giovani che nel 2019 con le “rivolte del pane” portarono alla  caduta di Bashir.

Come le centinaia e centinaia di martiri morti per quella “primavera sudanese” che non si è mai realizzata fino in fondo stanno morendo migliaia di innocenti che credevano in un futuro migliore senza il regime che li aveva Cesari per un trentennio,

Nell’indifferenza e nel silenzio del mondo.

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