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Sudan, Fill a Heart un progetto di giovani per rivalorizzare gli orfanotrofi

Giovani a capo della rivalorizzazione degli orfanotrofi in Sudan: così nasce Fill a Heart
Mohammed Mustafa Abubaker, ideatore dell’iniziativa, ha rivolto lo sguardo alla realtà degli orfani sudanesi, anello già debolissimo e surclassato dalla violenza delle rivolte che, solo un anno fa, attanagliavano la capitale e non solo. Iscritto alla facoltà di medicina della University of Khartoum, a 24 sta ristrutturando gli orfanotrofi del suo paese con la sola partecipazione attiva dei piccoli finanziatori.
Una famosa canzone americana descriveva così New York: “una giungla di cemento di cui sono fatti i sogni”. Oggi potremmo dire lo stesso di Khartoum. A un anno da quel sanguinoso 3 giugno, in cui le milizie di al Burhan (insieme alle forze paramilitari del paese come le forze di supporto rapido ma anche i servizi segreti) sopprimevano con le armi e i fumogeni le proteste non violente dei cittadini radunati nel sit in di fronte il quartier generale dell’esercito, oggi la città è teatro di diverse iniziative sociali, volte a dare un contributo per la ricostruzione del volto democratico del paese. È in questo clima che nasce Fill a Heart.
“I bambini non conoscono l’amore materno o paterno, e hanno spesso un passato di abusi e violenze. Il nome della campagna è motivato dal fatto che tutori ed educatori sono degli sconosciuti che cercano di dar loro l’opportunità di vivere un’infanzia felice, serena. Loro non conoscono queste sensazioni”. Così esordisce Mohammed parlandoci del suo progetto.
Il primo target della loro azione è stato il Mygoma Orphanage, situato nei pressi della capitale. Si tratta di un orfanotrofio con una capacità di 600 posti, ma una struttura ormai fatiscente e inadeguata alla crescita dei piccoli ospiti. FaH è stata in grado di prendere piede nella gestione solo dopo che la rivoluzione, per il fatto di aver rappresentato un rovesciamento del potere costituito, ha costretto alla ritirata i vecchi gestori, i quali traevano i loro profitti proprio grazie al sistema corrotto stabilizzatosi negli anni. “Abbiamo cominciato da questa struttura perché la conoscevo già. Ero un volontario. Ma non ci era permesso lavorare direttamente con i bambini. Il nostro contributo era confinato quasi al solo finanziamento economico. I soldi venivano, tuttavia, rubati dai lavoranti e ogni volta che abbiamo provato ad avvicinarci all’amministrazione erano guai seri per noi. Era un luogo impenetrabile alla gente normale. Erano una setta.”
Il Mygoma è stato costruito nel 1961 per ospitare quei bambini abbandonati che nascevano da rapporti forzati o al di fuori di un legame matrimoniale e che venivano trovati per le strade della capitale, o in case abbandonate, o ancora nei bidoni dell’immondizia. Con i cani addosso.
La rivoluzione ha spronato M. ad intraprendere questo percorso di rivalorizzazione all’interno di una realtà caduta in seria difficoltà, a causa del numero degli orfani cresciuto esponenzialmente proprio in seguito alle uccisioni perpetuate a carico della popolazione durante le rivolte. Lo stesso Mygoma, nonostante la sua capacità si è trovato nella necessità di respingere le richieste di asilo sempre più pressanti.
All’interno della struttura la situazione ereditata da M. e il suo gruppo (all’inizio pochi colleghi di università ma in seguito molto più numerosi e giovanissimi) non è stata facile da gestire: la mortalità infantile era di 33 bambini al mese (dato raccolto a settembre 2019). Questo dato, secondo lo stesso

fondatore, è dovuto alla mancanza dei servizi primari: “I bambini muoiono per una semplice febbre o a causa della malaria. Questo si previene semplicemente con le zanzariere”. Continua: “All’interno dell’orfanotrofio cerchiamo di garantire migliore illuminazione, ventilazione, aria condizionata. Proviamo a fornire un luogo più sicuro in cui crescere, insomma. Stiamo creando un piccolo spazio in cui studiare e installando un playground. Al momento possono solo leggere sul pavimento, sfruttando la luce naturale. Vorremmo che questo posto diventasse una casa che permetta loro di crescere sia fisicamente che mentalmente”.
L’aspetto più innovativo, tuttavia, nella politica di FaH è il coinvolgimento attivo obbligatorio dei donatori locali. “Poniamo il caso che una persona sia interessata a contribuire economicamente: donerebbe la propria quota e se ne dimenticherebbe, giusto? Con il sistema che abbiamo adottato questo non è possibile. La nostra azione si basa sul contributo di tutti. Di conseguenza vieni chiamato a collaborare “hands on” in una delle attività in corso di svolgimento, che si tratti di semplice pulizia, decorazione e pittura delle pareti o di istallazione di un impianto. In questo modo non solo segui da vicino i lavori e hai la certezza di dove siano finiti i tuoi soldi, ma alimentiamo la partecipazione e la consapevolezza circa l’impegno che rappresenta questo progetto da parte dell’opinione pubblica.”
Un modo per abbattere i costi e sfruttare al massimo le piccole cifre a disposizione, un approccio coraggioso che mira ad alimentare la coscienza collettiva circa la problematica e che ha portato finora al lento raggiungimento dei primi risultati: la ristrutturazione di due soffitti collassati (una tragedia che costò la vita a 60 bambini), 3 bagni, 6 stanze da letto e l’acquisto di 6 piccoli fasciatoi.
La strada è ancora lunga e ottenere fondi non è facile. Mohammed aggiunge a tal proposito: “Convincere i finanziatori è stato uno step molto difficile a causa della rinomata corruzione nel nostro paese. Ma stiamo riuscendo a bypassare il problema con la rendicontazione costante e il loro coinvolgimento diretto”.
A oggi, i maggiori sponsor dell’iniziativa sono liberi cittadini provenienti da tutto il mondo che si servono degli account GoFundMe attivati dall’organizzazione per ricevere i fondi. A loro si affiancano SND-UK e SDN-USA, così come la campagna SudanSafe. Grazie ai contatti sempre crescenti, l’organizzazione ha ingaggiato referenti in US e in Germania (dove si gestiscono i fondi provenienti dai Paesi Europei).
Le occasioni di sponsorizzazione della campagna non mancano, e si organizzano costanti eventi di raccolta fondi dentro e fuori il Sudan. Sembra infatti che anche l’attenzione del WHO sia cresciuta al momento nei confronti di FaH, data la presenza di due ispettori incaricati che hanno visitato la struttura già nel mese di settembre.
Tuttavia l’emergenza covid-19 non ha risparmiato la neonata realtà di Fill a Heart, e i lavori sono stati interrotti per motivi di sicurezza. I fondi, quindi, sono stati in parte destinati alla produzione di piccoli pacchetti contenenti beni di prima necessità e igienizzanti, da destinare a quelle famiglie che non possono permettersi economicamente di rimanere dentro casa. La paura in Sudan, infatti, è che a causa del bisogno di percorrere ogni giorno lunghe distanze per assicurarsi un’entrata finanziaria sufficiente, non si riescano a contenere i contagi. Pertanto più di 500 famiglie sono state raggiunte dalla solidarietà degli ideatori dell’iniziativa.
La pagina di riferimento della campagna è su Instagram e si chiama @fillaheart_fah. In bio e nelle storie in evidenza sono reperibili gli account GoFundMe in cui poter fare donazioni.
Ultima informazione. La mortalità infantile oggi è scesa a 3 bambini al mese.

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