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Sudan, continuano le proteste e sale la conta dei morti

In Sudan è di nuovo mattanza di manifestanti che protestano contro la Giunta militare al potere, che dopo aver deposto il primo ministro Abdalla Hamdok nell’ottobre del 2021 con un golpe continua a reprimere il dissenso.
Le manifestazioni e i sit-in si sono svolti nelle ultime settimane nella capitale Khartoum, nella periferia nord-occidentale e nella Khartoum-Nord.
La scelta di tre luoghi diversi si è resa necessarie per aggirare il problema della chiusura da parte delle forze dell’ordine dei ponti che collegano la capitale a ciascuna delle sue periferie, impedendo così un unico grande assembramento di persone.
Determinate a inasprire la resa dei conti con i generali, che ora detengono il potere e hanno a lungo dominato l’economia, le Forces for Freedom and Change, cuore del governo civile detronizzato dal golpe, hanno animato  “un coordinamento unificato” di sit-in e manifestazioni “ovunque in Sudan”. Mentre la disobbedienza civile ha già bloccato il Paese diversi giorni dopo il colpo di stato, il sindacato dei medici sudanesi ha annunciato l’inizio di uno sciopero ad oltranza.
Quanto al “dialogo nazionale” richiesto da mesi dall’Onu e dalle capitali straniere, i civili hanno affermato di non essere piu’ coinvolti. Ieri, Yasser Arman, dirigente dell’Flc, ha sottolineato che “i proiettili che hanno falciato i manifestanti hanno falciato il processo politico”. “Non abbiamo un interlocutore”, ha sottolineato mentre i soldati continuano a dirsi pronti al dialogo, chiedendo subito “concessioni” ai civili. Per le strade dei luoghi coinvolti nelle proteste ha aleggiato un unico slogan: “Nessuna partnership, nessuna trattativa” con i generali, che hanno tradito i civili, secondo questi ultimi, anche prima che quasi tutto il governo civile fosse arrestato il giorno del colpo di stato. Dopo la “rivoluzione” che ha rovesciato Bashir nel 2019, soldati e civili avevano deciso di guidare insieme il Paese verso le prime elezioni libere dopo 30 anni di dittatura militare-islamica. Quando il golpe ha rotto questa alleanza, la comunita’ internazionale ha chiuso il rubinetto degli aiuti, sperando cosi’ di costringere i militari al potere a fare le necessarie concessioni ai civili. Ma questi, ex comandanti di Bashir, sono gia’ sopravvissuti a decenni di embargo internazionale sotto la dittatura e si dimostrano inflessibili. L’economia, invece, già in ginocchio, continua a precipitare, tra svalutazione esponenziale e inflazione a più del 200% ogni mese. I nove morti di giovedì scorso hanno provocato indignazione all’estero, sono in molti a stigmatizzare l’immunità delle forze di sicurezza e a spingere la giustizia sudanese a ordinare un’indagine.
Anche oggi centinaia di sudanesi continuano a protestare a Khartoum e nella sua periferia, determinati a porre fine al potere militare e alla sua repressione che ha fatto più di 130 morti.
Se dal colpo di stato del 25 ottobre 2021 del capo dell’esercito, il generale Abdel Fattah al-Burhane, i pro-democrazia hanno manifestato ogni settimana, il loro movimento, che sembrava aver esaurito la sua forza, ha ripreso vigore un giorno simbolico per il Sudan: anniversario di un altro colpo di stato, quello di Omar al Bashir, e della “rivoluzione” che lo rovesciò.
Proprio in quel giorno decine di migliaia di sudanesi sono tornati a manifestare fronteggiati dalle forze di sicurezza che hanno sparato proiettili veri uccidendo una decina di manifestanti, tra cui un quindicenne, ferendone a centinaia e arrestandone altrettanti, secondo i medici pro-democrazia che da ottobre hanno registrato 130 vittime e migliaia di feriti.
Nonostante la nuova repressione i dimostranti hanno annunciato che non si fermeranno e continueranno  la loro protesta finché il regime non sarà caduto, così come è stato per il dittatore Bashir.
Questa volta però l’esercito è “la dittatura” e anche dopo aver annunciato che non avrebbe usato la forza letale per disperdere i manifestanti ha sparato sulla folla.

La forza dovrebbe essere usata solo quando strettamente necessaria e nel pieno rispetto dei principi di legalità, necessità, precauzione e proporzionalità. In nessun caso è ammesso l’uso della forza per dissuadere o intimidire i manifestanti dall’esercitare i loro diritti alla libertà di espressione e di riunione pacifica, o per minacciarli.
La forza letale è una misura di ultima istanza e solo nei casi in cui c’è una minaccia imminente per la vita o di lesioni gravi, come sottolinea l’alta commissaria delle Nazioni unite per i diritti umani, Michelle Bachelet, intervenendo sull’uccisione dei manifestanti in Sudan.
I rapporti indicano che le forze di sicurezza hanno usato proiettili veri, oltre a gas lacrimogeni e cannoni ad acqua, contro le molte migliaia di manifestanti nelle città e nei villaggi di tutto il paese. Gli ultimi omicidi, avvenuti in un momento in cui le comunicazioni mobili e Internet erano state interrotte in tutto il paese, portano a 113 il numero delle persone uccise dalle forze di sicurezza nel contesto delle proteste dal colpo di stato dello scorso anno. Nessuno è stato ritenuto responsabile di queste morti.
Secondo fonti mediche la maggior parte delle persone uccise è stata colpita al petto, alla testa e alla schiena.
Le forze di sicurezza hanno anche arrestato almeno 355 manifestanti in tutto il paese, tra cui almeno 39 donne e un numero considerevole di bambini.
Focus on Africa continua a sostenere il diritto alla libertà di espressione e di riunione pacifica e di partecipazione agli affari pubblici è tutelato dal diritto internazionale dei diritti umani, compreso il Patto internazionale sui diritti civili e politici, di cui il Sudan è uno Stato parte e rilancia l’appello dell’Alto commissario per i diritti umani dell’Onu Michelle Bachelet alle autorità sudanesi a stoppare ogni atto repressivo nei confronti dei civili e a condurre un’indagine indipendente, trasparente, approfondita e imparziale sulla risposta delle forze di sicurezza in conformità con gli standard internazionali pertinenti, incluso il Protocollo del Minnesota sull’indagine sulla morte potenzialmente illegale, e a far sì che i responsabili ne rispondano. Le vittime, i sopravvissuti e le loro famiglie hanno diritto alla verità, alla giustizia e alle riparazioni.

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