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Sudan, ancora morti nelle repressioni dei militari. Il premier Hamdok si dimette

Un nuovo bagno di sangue e l’uso dell’artiglieria pesante da parte dell’esercito hanno spinto il primo ministro del Sudan, Abdalla Hamdok, a rendere ufficiali le dimissioni “congelate” da una settimana, definendole irrevocabili. Si apre così lo scenario di elezioni anticipate.
Di fronte all’ennesima repressione dei militari, che solo oggi hanno ucciso quattro manifestanti, il premier deposto con un colpo di stato il 25 ottobre e poi reinsediato dagli stessi golpisti sotto pressione internazionale, ha deciso di rinunciare a formare il nuovo governo.
“Ho fatto del mio meglio per evitare che la nazione scivolasse verso la catastrofe è che fosse versato altro sangue di innocenti” ha dichiarato Hamdok “ma alla luce della frammentazione delle forze politiche e dei conflitti tra le componenti del consiglio di transizione, nonostante tutto quello che è stato fatto per raggiungere un accordo, ciò non è accaduto” la sua amara conclusione.
Nel corso di quella che si è rivelata una delle più drammatiche dimostrazioni per le strade della capitale Khartoum, le forze di sicurezza hanno lanciato lacrimogeni e sparato contro migliaia di dimostranti che si dirigevano verso il palazzo presidenziale per protestare ancora una volta contro il colpo di stato, sfidando una città blindata e il blocco di internet.
Dal giorno della presa del potere del generale Abdel Fattah al-Burhan sono almeno 60 le persone uccise e centinaia i feriti.
E il bilancio dei morti è destinato a salire, fa sapere il Sindacato dei medici pro-democrazia.
“Nonostante le repressioni, non ci fermeremo – afferma Khalid Omer Yousef, ex ministro degli Affari del Gabinetto del Presidente del Consiglio – nuovi cortei sono già previsti per  giovedì prossimo. La brutalità  della strage di oggi non è descrivibile a parole. L’unica risposta possibile e portare avanti un’azione unitaria anti-golpe fino alla completa sconfitta dei militari.  Non è più tempo di divergenze secondarie. È tempo di guardare al nemico comune che non rispetta la santità del sangue e non disdegna la perdita di vite umane”.
Già giovedì scorso erano stati uccisi sette manifestanti, nonostante la capitale fosse stata blindata con blocchi stradali e container utilizzati per chiudere i ponti sul Nilo, in migliaia sono riusciti ad arrivare a ridosso del Palazzo presidenziale.
La risposta delle forze armate che presidiavano i punti strategici di Khartoum e delle zone limitrofe con autoblindo e armi pesanti è stata di una violenza mai vista.
Avevano l’ordine di colpire a morte. Ogni colta si ripete lo stesso drammatico copione.
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