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Rwanda, un’inchiesta sul regime di Paul Kagame

Un gruppo internazionale di giornalisti d’inchiesta ha unito le forze per svelare i retroscena del regime rwandese guidato da Paul Kagame. La loro indagine, suddivisa in diverse tematiche, si propone di analizzare i metodi repressivi utilizzati dal governo per mantenere il potere e mettere a tacere le voci critiche. L’inchiesta si intitola “Rwanda Classified” ed è realizzata dal collettivo internazionale chiamato “Forbidden Stories“: 50 giornalisti provenienti da 11 Paesi diversi e da 17 testate giornalistiche (Der Spiegel, Le Monde, The Guardian, Haaretz). Dal loro lavoro emerge un ritratto tenebroso del governo di Kigali, accusato di repressione sistematica dei dissidenti e delle voci critiche attraverso intimidazioni, minacce e tentativi di assassinio, sia in Rwanda che all’estero.

Un’inchiesta di inchieste

Il dossier “Rwanda Classified” raccoglie otto inchieste giornalistiche che svelano un lato oscuro del Ruanda. Il Paese, spesso elogiato per la sua rinascita dopo il genocidio del 1994, viene qui indagato per presunte violazioni dei diritti umani, tentativi di influenzare le vicende politiche di altre nazioni e la soppressione del dissenso. In primo piano c’è la morte del giornalista John Williams Ntwali, i cui lavori d’inchiesta lo avevano messo nel mirino delle autorità. La seconda indagine si concentra sul presunto coinvolgimento del Rwanda nel conflitto in corso nelle province orientali della Repubblica Democratica del Congo: vengono analizzate le morti di soldati rwandesi sul territorio congolese, mai ufficialmente riconosciute dal governo di Kigali. La terza sezione analizza come il Rwanda sfrutti le missioni di pace per accrescere la sua influenza e ottenere prestigio internazionale, nascondendo possibili violazioni dei diritti umani. La quarta inchiesta denuncia i presunti tentativi del Rwanda di intimidire e mettere a tacere i dissidenti che vivono all’estero, attraverso attività di spionaggio e minacce. Sulla stessa scia, il quinto capitolo dell’inchiesta approfondisce il deterioramento delle relazioni diplomatiche tra Belgio e Rwanda, causato da presunte attività clandestine del governo rwandese sul territorio belga e da morti sospette di oppositori politici rifugiati. La sesta indagine rivela i presunti sforzi del Rwanda di manipolare l’opinione pubblica occidentale e africana attraverso campagne di propaganda online e rapporti con i media. Similmente, l’inchiesta successiva riguarda l’utilizzo rwandese del software Pegasus, utilizzato per intercettare le comunicazioni di oppositori politici e figure scomode per il governo. Infine, l’ottava sezione ricostruisce la storia di Paul Rusesabagina, l’uomo che salvò migliaia di persone durante il Genocidio (da cui è stato tratto un famoso film americano), accusato dal governo rwandese di terrorismo.

Questo complesso di inchieste solleva questioni importanti sulla situazione politica e dei diritti umani in Rwanda ed è fondamentale continuare a indagare e portare alla luce la verità per garantire la giustizia e la libertà di espressione. Il tutto è partito dalla morte sospetta del giornalista rwandese John Williams Ntwali nel gennaio 2023. L’uomo aveva 43 anni ed è deceduto a Kigali a causa di una macchina che ha investito il suo moto-taxi: un incidente apparentemente banale, ma con molte zone d’ombra. John Ntwali, redattore capo del giornale “The Chronicles”, era noto per le sue inchieste contro il potere e Forbidden Stories ha cominciato ad interessarsene dopo aver incontrato alcuni colleghi e familiari, i quali affermano che, fino alla sera stessa della sua morte, il giornalista si sentiva costantemente seguito e riceveva minacce telefoniche, alcune delle quali dicevano: “Ti investiremo quando sarai in moto!“.

Un altro filone dell’inchiesta è, invece, in Belgio, dove il giornale “Le Soir”, che ha partecipato alle indagini, rivela le intimidazioni subite dalla diaspora rwandese, o da chiunque sia definito da Kigali come “negazionista del genocidio” dei Tutsi. Solo in Belgio, “Rwanda Classified” conta una ventina di azioni repressive e di sorveglianza nell’ultimo decennio. Tra questi atti, l’infezione di smartphone tramite il software spia israeliano Pegasus, campagne di diffamazione sul web, e anche atti più gravi, inclusi quattro morti sospette di cittadini rwandesi dal 2004. Secondo il sito “Jambo News”, molto critico verso il presidente Paul Kagame, un ufficiale dei servizi segreti gestirebbe dall’ambasciata del Rwanda a Bruxelles un gruppo composto da studenti, falsi oppositori e persino tassisti. Tutti sarebbero incaricati di intimidire le voci dissidenti in tutta Europa.

Le critiche all’inchiesta

Secondo il governo di Kigali, l’inchiesta di Forbidden Stories è una “campagna mediatica politicamente motivata e ostile verso il Rwanda“. In un comunicato, le autorità denunciano accuse “già smentite più volte” e destinate a “seminare il caos” in vista delle elezioni presidenziali e legislative che si terranno il prossimo 15 luglio 2024, in cui il presidente Paul Kagame, capo dello Stato da 24 anni, è candidato per la rielezione e per un quarto mandato.

Sui socialmedia sono tanti i rwandesi a denunciare l’inchiesta come un presunto attacco mediatico contro il Rwanda e il suo presidente, sottolineando che l’indagine giornalistica è finanziata con ben 2 milioni di dollari, di provenienza ignota, e che si baserebbe su prove inconsistenti, come congetture, voci e fonti dubbie, alimentando una narrativa distorta e denigratoria del Paese africano.

Nessuna inchiesta giornalistica è un procedimento giudiziario, in cui le evidenze devono essere concrete e incontrovertibili, per cui alcune accuse di “Rwanda Classified” sono inevitabilmente più fragili e basate su testimonianze orali. Dalla parte opposta, tuttavia, al momento nessuna critica all’inchiesta smonta nel merito le denunce sollevate dai giornalisti, ma si limita a manifestare perplessità sul rigore deontologico dei reporter e sulla solidità delle fonti del loro lavoro. La controaccusa più decisa, infatti, è nel “rancore profondo” che tali giornalisti avrebbero nei confronti del Rwanda. Lo spiega l’editorialista David Gakunzi in un forte articolo di “Paris Global Forum”, che individua due fattori principali di questo “rancore”:

  • Il rancore verso il successo del Rwanda, che sotto la guida di Kagame “ha intrapreso un percorso di ricostruzione e sviluppo post-genocidio che lo ha portato ad essere un esempio di progresso e stabilità in Africa“. Questo successo, che contrasta con le narrative stereotipate di un continente intrinsecamente corrotto e violento, “scatena invidia e ostilità tra coloro che aderiscono a tali visioni obsolete“.
  • Pregiudizi razziali, nel senso che nelle critiche rivolte al Rwanda sarebbe ancora diffuso “un substrato razzista“. La rappresentazione distorta del Paese come intrinsecamente dittatoriale, corrotto e privo di diritti umani rifletterebbe “una visione paternalistica e colonialista dell’Africa, in cui gli africani sono considerati inferiori e incapaci di autodeterminazione“.

L’analisi di Gakunzi sfida le narrazioni negative e semplicistiche spesso associate all’Africa; a suo dire, il Rwanda rappresenta un esempio di come un Paese africano possa intraprendere un percorso di sviluppo positivo e autonomo, basato su valori come dignità, eccellenza, responsabilità e autodeterminazione. Il suo appello, pertanto, è a rigettare i pregiudizi e le narrazioni obsolete che continuano a condizionare la percezione dell’Africa e dei suoi popoli: il Rwanda, con il suo percorso di ricostruzione e progresso, offre un esempio tangibile di come il continente africano abbia la capacità e le risorse per determinare il proprio futuro.

Tra le risposte all’inchiesta va segnalata anche la presa di posizione di Jessica Mwiza, afrofemminista panafricana che, su un blog di Médiapart (Francia), ha spiegato perché, dalla sua prospettiva, si tratta di una indagine “basata su teorie del complotto e retorica razzista, alimentando una narrativa tossica e dannosa nei confronti del Rwanda e del suo popolo“. In particolare, Mwiza sostiene (come ha affermato anche in un’intervista televisiva) che l’inchiesta rappresenti una “narrazione tossica” sul Rwanda, perché riproporrebbe vecchie ideologie razziste e coloniali, distorcendo la realtà locale per adattarla a preconcetti occidentali: “Rwanda Classified” è, a suo dire, il prodotto di una visione eurocentrica e ignorante, incapace di comprendere e rispettare la storia del Paese africano.

La medesima argomentazione è portata avanti da Sanny Ntayombya sul giornale filo-governativo rwandese “The New Times”, in cui ricorda come il governo di Kagame venga costantemente criticato da un gruppo ristretto di oppositori, con argomenti a suo dire infondati e motivati da interessi personali o pregiudizi, ossia: alcuni ex-membri del governo genocida e del partito di Kagame fuggiti all’estero; specifiche ONG piuttosto influenti come “Human Rights Watch” e “Amnesty International”; certi giornalisti di determinate testate occidentali; alcune agenzie di intelligence e politici occidentali con mire ostili al Rwanda. Queste figure mirerebbero a destabilizzare il Rwanda prima delle elezioni generali di luglio e a danneggiare il turismo rwandese, nascondendo i reali progressi raggiunti dal Paese sotto la guida di Kagame, grazie a un modello di governance sviluppato internamente.

In difesa del giornalismo d’inchiesta

Parallelamente, altri utenti del web – tra cui giornalisti e attivisti – si sono schierati decisamente in difesa dell’inchiesta, respingendo con fermezza le accuse che la vorrebbero mossa da ostilità personali o interessi nascosti nei confronti del Rwanda e del presidente Paul Kagame. Anzi, sostengono, un’indagine del genere è particolarmente necessaria e legittima perché fa trasparenza in materia di libertà di stampa, dove il Rwanda si colloca al 144esimo posto su 180 nella classifica mondiale di Reporter Senza Frontiere.

Il fulcro dell’argomentazione si basa sulla natura stessa di Forbidden Stories. Viene infatti messo in luce che si tratta di un network nato con una precisa missione: portare avanti le inchieste di giornalisti messi a tacere con minacce, persecuzioni o addirittura eliminazioni fisiche. L’obiettivo è chiaro: scoraggiare i regimi che tentano di soffocare il dissenso attraverso l’intimidazione o la violenza nei confronti degli operatori dell’informazione. In quest’ottica, “Rwanda Classified” non è un attacco isolato al Rwanda, ma si inserisce in un quadro di azioni volte a garantire la sicurezza dei giornalisti e il diritto all’informazione a livello globale, come già accaduto con inchieste su India, Azerbaijan e Camerun. In tutti questi casi, le inchieste sono state avviate a seguito di minacce o uccisioni di giornalisti, per cui il Rwanda non è un bersaglio specifico di Forbidden Stories. Questo tipo di indagini giornalistiche, dunque, sono un deterrente per i regimi che limitano la libertà di stampa, sono una misura di salvaguardia per la categoria dei giornalisti d’inchiesta, che svolgono un ruolo fondamentale nel denunciare abusi e garantire la trasparenza.

L’accusa di negazionismo del Genocidio dei Tutsi

Il Rwanda lotta costantemente contro il negazionismo del Genocidio dei Tutsi, riconosciuto dal Tribunale Penale Internazionale per il Rwanda, istituito nel novembre del 1994 dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Come ha spiegato nel 2010 lo storico Jean-Pierre Chrétien, la negazione del Genocidio dei Tutsi sarebbe addirittura “strutturale” e avrebbe un obiettivo semplice ed evidente, nascondere la realtà:

“Questa corrente opera in rete in Europa e Nord America. In Francia, ciò si è manifestato soprattutto dopo i lavori della Missione parlamentare del 1998, che avevano aperto la strada ad una lucida critica della politica francese negli anni 1990 e 1994 e in particolare a partire dal decimo anniversario del genocidio, quanto ad offuscare il quadro immagine, anche in reazione all’avanzamento dei lavori del Tribunale penale internazionale per il Rwanda che ha condannato il colonnello Bagosora nel dicembre 2008. Si tratta quindi chiaramente di una mobilitazione contro le diverse forme di lavoro sulla verità”.

La negazione del Genocidio dei Tutsi non si limita alla mera affermazione che gli eventi non siano accaduti, ma comprende una vasta gamma di espressioni e comportamenti volti a minimizzare, distorcere o addirittura rovesciare la verità storica:

  • Negazione diretta: è il rifiuto esplicito del fatto che il genocidio sia avvenuto, spesso accompagnato da attacchi alle vittime o ai sopravvissuti.
  • Inversione di responsabilità: è l’attribuzione della colpa del genocidio alle vittime stesse o ad altri gruppi, come i Tutsi.
  • Teoria del “doppio genocidio”: è il tentativo di equiparare il genocidio dei Tutsi ad altri eventi violenti avvenuti in Rwanda, minimizzando la sua gravità e unicità.
  • Negazione della complicità: è il rifiuto di ammettere il coinvolgimento di individui o gruppi nel genocidio, anche di fronte a prove evidenti.
  • Minimizzazione e derisione: è la tendenza a sminuire la portata del genocidio o a ridicolizzare le sue vittime.
  • Errori fattuali: riguarda la diffusione di informazioni false o distorte sulla storia del genocidio, spesso attraverso l’inversione dei ruoli tra Hutu e Tutsi.

Cosa c’entra questo argomento con l’inchiesta “Rwanda Classified”?

Nulla in maniera diretta, eppure sui social diversi difensori dell’inchiesta sono personaggi noti per le loro posizioni “dubbiose” sul Genocidio, che rientrano nelle tipologie elencate poco fa, come coloro che, facendo scadere il linguaggio e le argomentazioni, parlano di “narrativa di autocommiserazione del regime rwandese“, dove il termine “self-pitying” (autocommiserazione, appunto) sembra quantomeno infelice. Eppure, proprio per chiarezza e trasparenza, non va neanche taciuto che la lotta alla negazione del Genocidio dei Tutsi non deve tradursi in una repressione indiscriminata del dissenso. Già troppe volte è emerso, infatti, che alcune critiche sollevassero perplessità sul potenziale utilizzo strumentale dell’accusa di “negazione” per soffocare le opinioni minoritarie, per proteggere il governo rwandese da qualsiasi accusa e per occultare eventuali crimini commessi dal regime di Kigali.

Riconoscere una dittatura

In base agli studi storici e politologici, le dittature sono spesso guidate da autocrati carismatici che utilizzano la demagogia e il culto della personalità per consolidare il loro potere. Sono molti gli esempi di leader che hanno saputo sfruttare abilmente la propaganda e l’indottrinamento, adottando una retorica nazionalista e populista per ottenere consenso, creando un’immagine eroica e infallibile di sé stessi attraverso la censura, la riscrittura della storia e l’uso massiccio di simboli e rituali.

Intorno al despota si forma una “corte” di alleati, composta da forze armate, polizia segreta e milizie private che garantiscono il potere tramite la forza e l’intimidazione. Questa élite include anche oligarchi e affaristi che traggono profitto dal regime attraverso accordi corrotti e sfruttamento delle risorse, nonché ideologi e intellettuali che legittimano e sostengono il regime mediante la propaganda e la censura. Naturalmente, la repressione dell’opposizione è un ulteriore elemento delle dittature, che attraverso la polizia politica, interrogatori brutali e torture, estirpa qualsiasi forma di dissenso. Gli oppositori, i giornalisti e gli attivisti scomodi possono essere eliminati fisicamente tramite omicidi politici, sparizioni forzate e campi di prigionia. Accanto a questo c’è anche il controllo delle informazioni, perché sono tanti i giornalisti incarcerati o intimiditi o gli esempi di libertà di stampa negata e di internet censurato, con i media completamente assoggettati che diffondono propaganda e proselitismo che plasma la realtà.

Tutto questo si trova nei manuali di scienze politiche e di scienze sociali, ma ha a che fare con la realtà concreta attuale di Paul Kagame e il suo regime?

In assenza di contropoteri come una magistratura indipendente, le inchieste giornalistiche possono aprire una breccia e fare luce, eppure alcuni tratti sono riconoscibili anche solo ponendo uno sguardo non superficiale alla realtà rwandese. Il prossimo 15 luglio ci saranno le elezioni presidenziali e legislative, e il 31 maggio si è chiuso il periodo di presentazione delle candidature presso la commissione elettorale, che il 6 giugno dovrà esaminarle prima di convalidare la lista definitiva dei candidati. In totale, ad aver presentato domanda sono nove candidati, per lo più indipendenti, tra cui Philippe Mpayimana, ex giornalista, e Frank Habineza, deputato e fondatore del Partito Verde Democratico, l’unico partito di opposizione registrato nel Paese. Tra gli ultimi a presentare la candidatura, inoltre, c’è anche Diane Rwigara, un’oppositrice indipendente il cui padre, ex finanziatore del FPR (il partito di Kagame), è morto nel 2015 in un incidente che la famiglia sospetta sia stato un assassinio politico. Rwigara aveva già tentato la candidatura alla presidenza nel 2017, quando però vide invalidato il suo dossier per falsificazione di firme, sebbene successivamente sia stata assolta da tutte le accuse dopo un anno di detenzione.

In quale sfumatura del raggio d’azione tra “libertà” e “dittatura” si colloca una situazione del genere?

Oltre alla candidatura per un quarto mandato, tra candidati che non sono realmente degli oppositori e delle alternative, un ulteriore elemento da considerare è la lunga durata del potere di Kagame: di fatto da 30 anni, ma formalmente da 24; in ogni caso, una durata che indica non solo una mancanza di alternanza democratica, ma anche una centralizzazione del potere attorno alla sua figura. Da qui discendono altre caratteristiche tipiche dei regimi illiberali, come il culto della personalità, il controllo delle informazioni, l’uso dei servizi segreti, la mancanza di libertà di espressione, la manipolazione e la propaganda.

Evidentemente, quello di Paul Kagame è un sistema di potere solido, ma alquanto lontano dagli standard democratici più avanzati. Dopo un evento incommensurabile come il Genocidio del 1994 contro i Tutsi, però, c’erano alternative reali? A quel tempo, il Rwanda si trovava in uno stato di devastazione e trauma profondo: un contesto così difficile che probabilmente hanno reso la stabilità e la sicurezza come delle priorità assolute, a scapito di alcune libertà democratiche. Inoltre, gli sforzi compiuti dai sopravvissuti e i risultati raggiunti dalla strategia di Kagame di risollevare (e ridisegnare) il Paese sono evidenti e incredibili: sarebbero avvenuti in altre condizioni? Non lo sapremo mai, ma oggi, a 30 anni da quell’abisso, è giunto il momento in cui possiamo immaginare un futuro più aperto, dialogato e, per certi versi, pacificato e maturo.

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