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Repubblica democratica del Congo, la sicurezza di una guerra

L’unico modo per sapere dove si trova il villaggio di Mabule è andare nella Repubblica Democratica del Congo o forse reperire una mappa militare. Provando a cercarlo su Google si finisce in Botswana. Ma in quel piccolo centro del Nord Kivu, nella notte tra il 4 e il 5 febbraio sono state uccise quattordici persone. Non conosciamo i loro nomi, se coltivassero un pezzo di terra o facessero del piccolo commercio, se avessero figli, nipoti, genitori. Della strage di Kabembeu, sempre in Nord Kivu, non sappiamo neppure il numero esatto delle vittime: forse dieci persone uccise la notte dell’8 febbraio. Stessa cosa a Kalembo, almeno dieci nella notte del 15, e almeno undici a Kisima, pochi dopo l’attentato in cui hanno perso la vita Luca Attanasio, Vittorio Iacovacci e Mustapha Milambo. Un catalogo, purtroppo non esaustivo, della violenza dell’ultimo mese.
Ma lunedì, all’improvviso, le vittime hanno avuto un nome, un volto e una storia, e hanno smesso di essere numeri di una statistica sempre uguale a se stessa. Che i morti avessero un volto e una storia lo sapevano Attanasio, Iacovacci e Milambo che conoscevano il Congo e hanno scelto di percorrere quelle campagne africane da decenni impregnate di sangue per andare a vederne la vita.
Ero nell’Est nei giorni in cui, uno dopo l’altro, si compivano questi massacri. Raccoglievo racconti raccapriccianti di corpi martoriati e cadaveri violati; di campagne coltivate con pazienza da contadini chini a gettare semi ad uno ad uno, saccheggiate; di bambini rapiti, per qualche migliaio di euro.
Da Goma a Rutshuru, la strada abbandona la città lentamente. Ci si inoltra nella campagna guardati a vista dal vulcano Nyiragongo, la cui eruzione, nel 2002, devastò la capitale della provincia. Da una parte c’è il Parco del Virunga, dove oggi un confine elettrificato è il segno visibile di un cambiamento drammatico, quello che fa dell’area protetta un luogo vietato allo sfruttamento consuetudinario e per questa ragione fonte di forti tensioni. Dall’altra, le piantagioni di caffè, le grandi proprietà. Anche l’accesso alla terra, insieme allo sfruttamento delle risorse del sottosuolo, è una delle ragioni del conflitto: piccoli agricoltori senza un campo da coltivare o costretti a pagare affitti troppo alti. Alcuni, come quelli che abitano lungo quella strada, hanno ottenuto di piantare i loro fagioli sotto gli alberelli del caffè.
Tutti, nei villaggi che attraverso andando verso Kalengera con il Programma alimentare mondiale, convivono con l’insicurezza. Sanno che la morte può farsi concreta ed inattesa, che si rapisce e si devasta. Non è il peggiore tragitto da fare in Nord Kivu, qui tutti si muovono senza scorta armata. Le notizie che abbiamo, in quei giorni, non ci fanno pensare di correre un rischio maggiore rispetto a quello che abbiamo già messo in conto. E’ una guerra, dopotutto. In guerra si può morire, e questo vale anche su quella strada. Sappiamo che nel parco trovano riparo e fanno perdere le tracce alcune delle centinaia di gruppi armati che popolano l’Est, che tra loro ci sono l’FDLR – le forze democratiche per la liberazione del Ruanda – e i Nyantura. Ma sappiamo anche che nel Nord Kivu operano bande di criminali comuni dedite ai rapimenti a scopo di estorsione, non addestrate e indisciplinate, senza strategie o ideologia, con l’unico obiettivo di trovare mezzi di sostentamento e fare business in un paese dove un dollaro al giorno è già un traguardo.
Il traffico è tanto per una strada malmessa, e anche per questo una trappola, ma che conduce in Uganda, via d’accesso a quel mercato transfrontaliero che è ragione di morte e di vita per le comunità dell’Est. Gli autisti vanno di fretta, ma ho il tempo di scattare qualche foto agli alberi di caffè sulla via del ritorno. Fermarsi troppo a lungo non è sicuro e dopo le sei di sera, quando il solo cala di colpo, nessuno vuole trovarsi fuori città, o fuori da casa, per quanto insicura.
La gente di qui sa che la vita si misura nell’arco di poche ore, e a quelle si aggrappa. Non si aggrappa alla giustizia, perché la foresta sembra inghiottire anche la verità. In Congo accade assai spesso che su crimini atroci e sulle loro ragioni i fatti si intreccino alle leggende, che notizie impossibili da verificare diventino prove e gli autori dei massacri identificati per la lingua che parlano pur restando per lo più sconosciuti e impuniti, che invece di un uomo si accusi una etnia.
Per capire chi ha tolto la vita a Luca Attanasio, Vittorio Iacovacci e Mustapha Milambo è in corso un’inchiesta che dovrà fare i conti con ombre e omertà, fitte come gli alberi di quel parco.
Chi sono quegli uomini? E chi ha sbagliato? Il PAM, la Farnesina, il Governo locale, una fonte sul campo? Ora su tutti si punta il dito, ma di responsabile certo ce n’è uno: il silenzio. Perché la morte di questi uomini non sia vana dovremo continuare a ripetere il nome di tutte le vittime di questa guerra anche quando il tempo attenuerà il dolore collettivo. Donne, bambini, uomini, con nomi, volti e storie.

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