vai al contenuto principale

L’esperienza in Sudan che mi ha legata per sempre a questo Paese

Il Sudan l’ho scelto per caso. Non sapevo cosa aspettarmi laggiù e forse proprio per questo mi sono lasciata travolgere e conquistare da ogni differenza, piccola o grande, dall’amicizia e dai sorrisi offerti dai colleghi locali.
Infondo era un mese di tirocinio nel reparto di pediatria dell’ospedale universitario.
Il progetto si chiama SCOPE (Standing Committee on Professional Exchange) e ad esso aderiscono più di 120 paesi in tutto il mondo. Per la scelta della mia meta…beh, io sapevo solo di voler andare in Africa e mi fidai del consiglio en passant di una collega dell’ultimo anno.
Arrivati a Khartoum, siamo stati indirizzati verso le nostre destinazioni lavorative.
Nei reparti siamo affidati a tutor. Il mio era un professore poco meno che cinquantenne che attraverso i suoi occhiali riusciva a guardare non solo il tuo grado di preparazione clinica, ma la tua attitudine all’ascolto, il tuo volerti migliorare e la propensione al lavoro. Ci teneva a darti del suo, a far sì che potessi uscire da quel reparto con la consapevolezza di aver acquisito conoscenze in più. E ci è riuscito. Lui che si preoccupava dei pregiudizi che potessimo avere e che mostrava un orgoglio tangibile.
Ma un’esperienza di scambio è anche molto altro: è far crescere il proprio cuore per fare spazio a tutta l’ospitalità e l’affetto ricevuti dai nuovi amici, è mettere in discussione il proprio “io culturale” che così cambia la sua composizione e ti prepara ad affrontare il futuro con uno spirito diverso.
Io ero parte di un gruppo di 17 studenti, per lo più italiani. Abbiamo dimostrato capacità di adattamento e ci siamo immersi in situazioni nuove e coinvolgenti come una missione medica nelle zone rurali. Si trattò, quella, di una giornata indimenticabile. Per la prima volta avevo la contezza dell’esistenza di una di quelle zone in cui “il medico non arriva” (come avevo sempre sentito dire nelle pubblicità delle associazioni umanitarie). C’erano diverse case immerse in un panorama sabbioso e a tratti paludoso per la vicinanza con alcuni piccoli affluenti del Nilo. C’erano bambini in ciabatte che giocavano qua e là e ogni tanto passava un tuc tuc, un piccolo mezzo di trasporto pubblico per tre persone che si aggirava nella zona. Non c’era nient’altro lì. Solo una piccola struttura con poche stanze, per lo più vuote o scarsamente arredate, che funge da clinica medica. C’era l’infermeria, per i prelievi, un piccolo studio pediatrico in un’altra stanza (che per le visite aveva solo il lettino, senza nemmeno la carta), la farmacia era in un’altra camera ancora, in posizione intermedia tra quella adibita a studio dentistico e quella della medicina generale. Noi siamo arrivati alle 7 del mattino e c’erano già almeno 20 persone in fila. Per lo più madri con bambini piccoli al seguito. Tutti i medicinali vengono forniti gratuitamente e il personale sanitario che si reca nella zona è, di solito, rappresentato da specializzandi o studenti di medicina e odontoiatria. A volte nelle università si decide ad estrazione chi degli studenti debba andare, ma ai medici questo non conviene perché le condizioni lavorative sono al limite dell’umana immaginazione e le paghe rase al suolo. Non esiste un sistema sanitario alla base che supporti tutto questo. Di conseguenza la piccola clinica rurale viene lasciata spesso abbandonata.
Molti sono stati però anche i momenti di svago: la shisha che accompagnava le nostre serate, le gite alle piramidi o a Jabal Barkal, le mille pietanze gustate in compagnia (nonostante la gastroenterite non abbia risparmiato nessuno di noi).
A tante cose, inoltre, non riuscivo ad abituarmi assolutamente in Sudan: la sabbia ovunque, casa sempre piena di gente, troppi “com’è il Sudan finora?”, troppi inviti a matrimoni di sconosciuti.
Tutte cose che mi hanno fatto sentire una novellina. Come se non sapessi niente del mondo e di come la gente può capirti e sorprenderti.
Una sensazione per cui non finirò mai di ringraziare quell’angolo di Africa.

Torna su