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La crisi nel Sahel: l’analisi di alcuni intellettuali africani

Pur con le inevitabili distinzioni, un percorso sta accomunando l’Africa francofona: le insurrezioni ad opera di giovani militari. In Mali, nel 2020, il col. A. Goïta prende il potere col proposito di creare un regime di transizione in grado di lottare contro il radicalismo islamico, di assicurare l’integrità del territorio nazionale e il buon andamento dell’apparato pubblico. Nel 2021, agli ordini del col. M. Doumbouya, una giunta militare s’impadronisce della Guinea e il Comité National du Rassemblement pour le Développement s’insedia nella capitale Conakry. All’inizio del 2022, in Burkina Faso, grazie all’esercito, il lgt.-col. P.H. Sandaogo Damiba assume le redini dello stato, per poi essere rimpiazzato, nell’autunno, dal cap. I. Traoré, che lo accusa di non aver mobilitato le forze necessarie alla guerra contro il terrorismo di matrice religiosa.

Più recentemente, nel luglio 2023, in Niger, il gen. A. Tiani mette agli arresti il presidente M. Bazoum, sino ad allora considerato il leader benvoluto di un paese democratico, sebbene reso fragile dalla minaccia jihadista e dalla povertà endemica. Infine, in un contesto di crisi post-elettorale, il 30 agosto 2023, il gen. B. Oligui Nguema prende il potere in Gabon; il putsch fa seguito all’annuncio dei risultati delle elezioni (tenute senza osservatori esterni) che avevano visto la conferma alla presidenza di Ali Bongo, figlio di Omar Bongo, rimasto a capo del paese dall’indipendenza.

Come reagiscono agli eventi in corso gli intellettuali del continente e quelli della diaspora, al contempo legati alla patria d’origine, frustrati da decenni di mancato sviluppo e portatori dei valori democratici connessi al rispetto dei diritti umani, propri della cultura francofona ereditata attraverso la tragica esperienza del colonialismo?

Precisa il beninese Francis Kpatindé, giornalista e docente universitario a Parigi: «Non ci sono colpi di stato buoni, ma esistono colpi di stato federatori» (Radio France Internationale, 31-8-2023) Se, aggiunge poi, «ogni colpo di stato ha la sua dinamica», i putsch citati «hanno sempre ricevuto il plauso delle popolazioni, deluse dai personaggi politici eletti», incapaci di garantire «un’equa distribuzione delle ricchezze» e colpevoli di essere delle marionette nelle mani di potenze straniere, la Francia in particolare. Conclude allora Kpantidé: «Il disamore è diventato rottura. La Francia deve scendere dal suo piedistallo e mettersi in una posizione di ascolto. Per ristabilire il legame due misure s’impongono: la chiusura delle basi militari di Parigi presenti sul continente e il superamento del cordone ombelicale con la Banca di Francia, mantenuto attraverso il franco cfa» (FranceCulture, 31-8-23).

Un ragionamento parallelo, volto a sottolineare l’avvilimento di un continente abitato da una gioventù alla ricerca di un “presente” migliore, stanca che le si dica, con arroganza, cosa fare e come muoversi sullo scacchiere internazionale, caratterizza la posizione lo studioso burkinabé Antoine de Padou Pooda, sacerdote e insegnante-ricercatore all’università urbaniana di Roma. Da noi intervistato, racconta: «Se l’opposizione alla Francia (e all’Occidente) corrisponde ad una ribellione contro un sistema predatorio, neo-coloniale e generatore di forme moderne di vassallaggio che feriscono la dignità degli africani, vi aderisco a pieno, poiché si tratta di affrancarsi e di affermare la nostra “africanità”; ma invito comunque alla ponderazione e alla non-violenza». Poi sottolinea: «Nel caso del Burkina Faso, potremmo dire che i militari hanno, in un certo senso, beneficiato di un’insurrezione democratica e che è stato il popolo a dare loro il potere, con l’obiettivo che ne servano gli interessi».

Ad insistere sulla posizione delle nuove generazioni africane è poi l’editore franco-maliano Omar Sylla. Durante una conversazione, ci confida: «I nostri figli stanno andando verso un cambiamento radicale, eppure, la loro esigenza di piena sovranità, di rispetto della persona, non è colta dalla Francia. Ciò che essi chiedono è una vera democrazia e i putschisti, ai loro occhi, rappresentano un modo per arrivarci, un momento di passaggio. Ma il giorno in cui i militari tradissero le aspettative, saranno cacciati a loro volta, perché la società civile è tenace». Piuttosto, «ciò che manca è una riflessione seria, promossa da intellettuali le cui analisi accompagnino il processo politico in atto. Il rischio è che il concetto di democrazia assuma una connotazione ambigua. Per evitarlo, si tratta di favorire riforme profonde attraverso il dialogo», incentrate sui problemi che toccano di più la gente (miseria, disoccupazione, corruzione).

Il difficile ruolo degli intellettuali africani è il tema evidenziato da Hamadoun Touré, ex ministro maliano e funzionario internazionale in pensione. Da noi contattato, sostiene: «Il dialogo è forza, ma la volontà di esprimersi deve purtroppo fare i conti con l’ambiente circostante. La libertà di espressione può essere ostacolata da chi ha il potere. Talvolta, una scelta tremenda s’impone. Cosa è meglio: un intellettuale prudente ma in vita o un intellettuale coraggioso ma morto?». Quindi argomenta: «Considero la democrazia un bene universale da perfezionare. I colpi di stato in serie nel Sahel potrebbero decretare la fine del mal governo oppure costituirne il prolungamento con le armi. Siamo all’alba di un’era inedita di cui non cogliamo con esattezza i contorni, ma corre l’obbligo di cercare una risposta».

Il nodo critico concerne la capacità dei governi militari di portare a termine il loro programma, senza eternizzarsi al potere, nonostante il contrasto fra l’entità delle ambizioni (migliorare la vita dei cittadini) e il carattere transitorio dell’intervento.

Due voci femminili della diaspora africana hanno affrontato la questione degli scopi da perseguire. Esprimendosi su Aljazeera (“The Bottom Line”, 7-9-23), l’ex ambasciatrice dell’Unione Africana presso le Nazioni Unite, Arikana Chihombori-Quao (originaria dello Zimbabwe ma residente negli usa), difende quanto corrisponde, per lei, a una rivoluzione o, meglio, a una «rivelazione pubblica del fatto che vi è qualcosa di sbagliato su come sono andate le cose nel Sahel sino ad ora, al punto che la Francia ha finito per rappresentare un rischio per la pace», anziché un baluardo nella lotta al terrorismo o un supporto allo sviluppo. Dichiara: «Non abbiamo bisogno di aiuti, ma di commercio», di scambi basati su regole giuste che profittino a entrambi i partner e non, come avviene nel caso dell’uranio del Niger, alla sola industria francese. Dal canto suo, la presidente dell’African Security Sector Network, Niagalé Bagayoko (padre maliano e madre francese), insiste «sull’obsolescenza degli strumenti mobilitati dagli attori internazionali quando intervengono». Poi denuncia i limiti dell’obiettivo strategico francese: «restaurare l’autorità degli stati saheliani, quando – invece – è proprio la loro governance ad apparire poco convincente» alla gente. Per altro, «il negare ogni dimensione politica ai gruppi jihadisti compromette la formulazione di una risposta non violenta al progetto di contratto sociale di cui questi sono portatori attraverso i loro attacchi» (Revue Défense Nationale, n. 841).

Un documento prezioso, uscito nell’estate 2023, a cura dell’undp e intitolato Soldiers and Citizens: Military Coups and the Need for Democratic Renewal in Africa permette di approfondire ulteriormente il rapporto fra cittadini e militari nelle aree saheliane, messe a confronto con le esperienze di altre zone del continente. Nella presentazione del volume, leggiamo: «La ricerca cattura i punti di vista di 8.000 abitanti. Di questi, 5.000 hanno sperimentato recenti colpi di stato e mutamenti incostituzionali di governo. Tali paesi includono Burkina Faso, Chad, Guinea, Mali e Sudan. La loro visione è contrapposta a quella di 3.000 cittadini di paesi-campione interessati da un processo di transizione democratica o di consolidamento della democrazia, segnatamente Gambia, Ghana e Tanzania. L’indagine fa così emergere i fattori che potrebbero prevenire ulteriori putsch: evitare d’imbrigliare le opportunità di cambiamento e favorire ordinamenti costituzionali duraturi» (undp.org).

Insomma, dalle testimonianze si rileva come i rovesciamenti manu militari siano oggi percepiti positivamente nella communis opinio, ma emerge pure il fallimento della politica occidentale (e della Francia in particolare), rea di essersi spesso presentata quale retaggio di una gestione coloniale. C’è da sperare, concludiamo noi, che il ricorso alle ribellioni armate corrisponda effettivamente ad una fase transitoria, in quanto è difficile pensare che la democrazia in Africa sia attuabile attraverso colpi di stato e non con libere elezioni.

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