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Il Rwanda dopo l’inferno: miracolo o tirannia? Kagame eroe o despota?

Un orrore delle proporzioni del Genocidio contro i Tutsi in Rwanda nel 1994 non passa, non può passare: non si dimentica, è indelebile, e continua a condizionare per decenni la vita dei sopravvissuti, la politica, le relazioni sociali, finanche quelle internazionali. Sono trascorsi 27 anni dalla tragedia rwandese e il Paese africano ha compiuto un percorso incredibile, sia sul piano della pacificazione interna, sia su quello della sua immagine nel mondo; tuttavia, la domanda che si pone con sempre più insistenza negli ultimi tempi è su quanto tutto questo sia solido e duraturo, giusto e lungimirante.
Il presidente del Rwanda, il sessantatreenne Paul Kagame, è considerato l’eroe che ha fermato il genocidio e che, governando da due decenni (senza contare che dal 1994 al 2000 fu vicepresidente), ha realizzato un vero e proprio miracolo, quello del Paese africano con l’attuale tasso di crescita economica più alto e stabile, quello di un piccolo Stato nel cuore del continente che, sebbene un quarto di secolo fa fosse sprofondato all’inferno, oggi riesce a organizzare eventi sportivi di scala planetaria. Come è possibile? Com’è possibile che Kagame nel 2017 abbia guadagnato il suo terzo mandato presidenziale con quasi il 99% delle preferenze? Com’è possibile che un Paese ancora poverissimo sponsorizzi squadre di calcio europee milionarie come l’Arsenal e il Paris Saint-Germain? Esiste un’opposizione in Rwanda? E in tutto questo, cosa c’entra ancora il genocidio?

Il genocidio che non passa
Il 26 settembre scorso, in un carcere del Mali, è morto Théoneste Bagosora, soprannominato «il re del genocidio», un ex colonnello dell’esercito rwandese condannato per il suo ruolo nel massacro di circa 800.000 persone nel 1994. Bagosora aveva 80 anni e alcuni problemi cardiaci, stava scontando una pena a 35 anni di galera che gli era stata inflitta nel 2008 dal Tribunale penale internazionale per il Rwanda, sostenuto dalle Nazioni Unite. Inizialmente era stato condannato all’ergastolo, ma poi, proprio per le sue condizioni di salute, la pena era stata ridotta. Colpevole di crimini contro l’umanità e di aver orchestrato l’omicidio di diverse figure politiche, tra cui il primo ministro Agathe Uwilingiyimana, al momento del genocidio Bagosora era una figura di spicco del ministero della difesa del Paese e fu arrestato due anni dopo in Camerun, dove era fuggito in seguito alla presa del potere da parte del Fronte Patriottico Rwandese di Paul Kagame.
Durante il suo processo, Bagosora ha sostenuto di essere stato vittima della propaganda dell’attuale governo, dominato dai tutsi, tuttavia molte testimonianze, come ad esempio quella del generale canadese Romeo Dallaire, capo della forza di pace dell’ONU che intervenne durante il genocidio, ha descritto Bagosora come il “perno” delle uccisioni.
Pochi giorni prima della morte del genocida, il 20 settembre il dramma rwandese era già apparso sui giornali di tutto il mondo per un’altra sentenza, ma per un uomo con una storia molto diversa: Paul Rusesabagina, che era stato appena condannato a 25 anni di prigione con l’accusa di aver cospirato contro la sicurezza nazionale attraverso un gruppo terroristico che tra il 2018 e il 2019 aveva compiuto vari omicidi. Rusesabagina è internazionalmente conosciuto per aver ispirato il ruolo del protagonista di un celebre film americano, “Hotel Rwanda”, in cui il regista Terry George narra come l’allora direttore dell’“Hotel des Mille Collines” di Kigali abbia salvato oltre 1200 persone dalla furia omicida del 1994. Da allora Rusesabagina è diventato una celebrità mondiale, ha acquisito la cittadinanza belga ed è andato a risiedere negli USA, dove nel 2005 è stato insignito della “Medal of Freedom”, la più alta onorificenza civile statunitense, per mano del presidente George W. Bush.
Un vero e proprio eroe, dunque, ma che negli anni è diventato sempre più critico nei confronti di Paul Kagame, denunciando il suo potere come brutale e repressivo, in una parola: dittatoriale. Secondo la famiglia Rusesabagina, questa sarebbe l’origine della persecuzione che ha subito dal regime rwandese, prima arrestandolo in condizioni controverse nell’agosto 2020 a Dubai, poi con un ‘processo farsa’ a Kigali nelle settimane scorse, in cui l’accusa non avrebbe fornito prove concrete per dimostrare le sue tesi. La reazione internazionale è stata di stupore e riprovazione, ma sostanzialmente timida: il ministro degli Esteri belga Sophie Wilmes ha dichiarato che «è chiaro che il signor Rusesabagina non ha beneficiato di un processo giusto ed equo»; il suo omologo americano ha affermato che «l’assenza di garanzie di un processo equo mette in discussione l’imparzialità del verdetto». Paul Rusesabagina, che ha 67 anni, non cessa di proclamare la propria innocenza, mentre i suoi congiunti denunciano sulla stampa che la sentenza è la prova di quanto il governo rwandese sia effettivamente un regime dispotico e intollerante.

Sfumature di regime
Secondo un ex consigliere di Kagame raggiunto dall’Economist, il vero motivo della punizione di Rusesabagina sarebbe estremamente banale: la gelosia. Nelle parole dell’informatore anonimo, «in Rwanda ci può essere un solo eroe post-genocidio ed è Kagame. Non avrebbe condiviso le luci della ribalta con nessuno».
Intervistata da Le Point, Carine Kanimba, figlia adottiva di Rusesabagina, sostiene che suo padre «è un prigioniero politico» e che quello di Kagame è un metodo per mettere a tacere ogni forma di dissenso, aggiungendo che lei stessa è stata presa di mira dal governo rwandese perché un documento di Amnesty International ha mostrato che il suo telefono cellulare era sotto controllo del software Pegasus fin dal gennaio 2020.
Il Fronte Patriottico Rwandese (RPF), il gruppo armato, poi partito politico di Paul Kagame, è stato spesso accusato di massacri contro gli hutu, ma anche alcuni tutsi, soprattutto nella Repubblica Democratica del Congo, durante quella che è stata definita «la seconda guerra mondiale africana», che ha coinvolto 25 gruppi armati di 8 nazioni africane, tra le quali appunto il Rwanda. È affermato all’interno del progetto “Mapping”, promosso dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, in cui sono raccolte le più gravi violazioni commesse tra marzo 1993 e giugno 2003 nella RDC.
Il caso più recente di accuse alla presidenza di Kagame, tuttavia, è del 27 settembre 2021, quando la ONG Human Rights Watch ha pubblicato un lungo pamphlet con numerose testimonianze contro il governo. Il tutto parte da un centro di transito nel quartiere di Gikondo della capitale Kigali, chiamato ufficiosamente “Kwa Kabuga”, noto per le sue condizioni dure e disumane, dove nella scorsa primavera sarebbero stati detenuti arbitrariamente una dozzina di gay e transgender, prostitute, bambini di strada e altri. Secondo le accuse, questi ‘drop-out’ dovevano sparire dalla vista dei capi di governo del Commonwealth (CHOGM) che avrebbero dovuto riunirsi nella capitale rwandese a giugno (conferenza poi rinviata a data da destinarsi), perché la città avrebbe dovuto presentarsi meglio di quel che è, dunque senza poveri ed emarginati in vista.
HRW ha effettuato la sua indagine intervistando telefonicamente 17 ex internati di Gikondo: 9 transgender o omosessuali, 3 donne con i loro bambini, 4 uomini che lavoravano come venditori ambulanti nei mercati locali e un ragazzo di 13 anni che viveva per strada. Tutti, afferma la ONG, hanno confermato che sono in corso abusi denunciati già da vari anni. Nel centro di transito di Gikondo, infatti, sono state segnalate violenze già nel 2015, nel 2016 e nel 2020, quando tale situazione fu resa nota durante un focus-meeting sul Rwanda da parte del Comitato delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia, a Ginevra nel febbraio di quell’anno. Le testimonianze hanno concordato sul fatto che a Gikondo i detenuti sono tenuti in stanze sovraffollate e in condizioni al di sotto degli standard richiesti dal diritto internazionale e dallo stesso ordinamento rwandese; inoltre, tutti hanno affermato di aver ricevuto cibo, acqua e assistenza sanitaria in modo inadeguato, oltre ad aver subito frequenti percosse e a non aver avuto modo di proteggersi da eventuali contagi di Covid-19.

Lati oscuri o distopie?
Nel marzo 2021, l’immagine pubblica di Kagame ha subito un duro colpo con l’uscita del libro “Do Not Disturb: The Story of a Political Murder and an African Regime Gone Bad”, della giornalista britannica Michela Wrong. L’autrice ha indagato sull’omicidio di Patrick Karegeya, ex membro del Fronte Patriottico Rwandese, diventato poi critico di Paul Kagame e, per questo, degradato del suo ruolo militare, incarcerato ed esiliato. Nel libro, Wrong segue due filoni espositivi: da un lato il percorso storico che dal colonialismo europeo porta al genocidio, passando per le guerre regionali dei Grandi Laghi e la presidenza di Kagame; dall’altro l’indagine vera e propria sulla morte di Karegeya, avvenuta a Johannesburg, in Sud Africa, il 31 dicembre 2013. In questa seconda parte, Wrong mischia ricordi personali di Karegeya – che in passato era stato una sua fonte per reportage giornalistici e libri – e dati di perizie e altre testimonianze. Ufficialmente, le circostanze che hanno portato alla morte della spia rwandese rimangono sconosciute e la sua famiglia ha accusò il Sud Africa di aver insabbiato le indagini. L’opposizione a Kagame insinuò immediatamente che il presidente fosse il mandante dell’omicidio; tuttavia, non sono mai emerse prove sostanziali del suo coinvolgimento, sebbene lui stesso abbia fatto ben poco per prenderne le distanze. Pur negando ufficialmente qualsiasi addebito, infatti, qualche settimana dopo il presidente dichiarò, stando a quanto riportato nel 2014 dalla BBC, che «non puoi tradire il Rwanda e non essere punito per questo; è questione di tempo».
In una replica a Wrong pubblicata nell’aprile 2021 sul New Times, il giornale nazionale rwandese, filogovernativo, Sila Cehreli e Gatete Nyiringabo Ruhumuliza hanno affermato che il volume contiene solo calunnie nei confronti di Kagame e dell’intera classe dirigente del Paese africano. Le due editorialiste, rispettivamente una docente di Storia presso la facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Marmara a Istanbul e una avvocato e analista politica indipendente in Rwanda, ritengono che la giornalista britannica si sia affidata in maniera acritica a testimonianze di politici rwandesi in esilio, a membri del partito di governo ugandese, al personale di Human Rights Watch e ad altri studiosi e giornalisti europei che «da decenni non mettono piede in Rwanda» e, soprattutto, che spesso furono vicini al regime che compì il genocidio. Senza mezzi termini, Cehreli e Nyiringabo scrivono che «“Do not disturb” dipinge il Rwanda come una società distopica paragonabile solo alla Corea del Nord, dove non vengono rispettati i diritti umani, dove la povertà e la miseria sono in aumento e dove la popolazione hutu è oppressa».
Quale versione è vera o, almeno, si avvicina alla realtà? Da un lato c’è chi considera Kagame un criminale, che tuttavia è benvoluto da numerosi leader internazionali, almeno in Occidente; dall’altro, invece, c’è chi lo ritiene un eroe o addirittura un padre (ri)fondatore, sebbene sulla stampa internazionale diversi intellettuali lo dipingano come un tiranno. Nel disordine mediatico del dibattito storico e della polemica politica, intanto la ferita del genocidio continua a sanguinare: non mancano minimizzatori o addirittura negazionisti dell’orrore del 1994, personaggi che sui social-media si dolgono per la morte di Bagosora, un uomo a cui è stata attribuita la responsabilità di quasi un milione di morti, e altri che ribaltano i fatti, affermando che i veri carnefici furono coloro che si dicono vittime, secondo una lucida strategia ideologica della confusione, al fine di perpetuare la contrapposizione etnica, la stigmatizzazione, il sospetto, la frantumazione di una società lacerata.

La Singapore d’Africa
Le accuse lanciate da HRW sono gravi: a Kigali, decine di “non conformi” (poveri, omosessuali, ambulanti, prostitute…) sarebbero stati allontanati dal palcoscenico previsto per il soggiorno dei capi di Stato di mezzo mondo. Secondo un attivista della società civile, nel maggio scorso le strade della capitale erano vuote: «in città non si vedevano bambini di strada; anche i fruttivendoli erano stati portati a Gikondo». Stando alle testimonianze, inoltre, molti di questi internati sarebbero stati maltrattati e percossi dalle forze di polizia e dal personale del centro di transito, al punto che alcuni sarebbero morti durante la detenzione. Sono violenze ripugnanti e, in quanto tali, vanno denunciate con determinazione, tuttavia ci si deve domandare se, per quanto ricorrenti, rappresentino una metodica violazione dei diritti umani da parte del governo. In altre parole, questi casi delineano una deliberata politica di ghettizzazione ed esclusione volta alla discriminazione etnica o di genere? Dinanzi alla brutalità istituzionale, tali quesiti potrebbero sembrare delle capziosità, eppure il caso del Rwanda è talmente straordinario e complesso, affonda così tanto le radici nella nostra stessa coscienza, che è necessario approcciare criticamente ogni affermazione: è basilare riuscire a distinguere tra violenze isolate e repressione sistemica per capire se il Rwanda è una democrazia incompiuta o un Paese illiberale, se è scivolato in una dittatura o addirittura in un totalitarismo.
Kagame è senza dubbio un presidente dal pugno di ferro e le sue percentuali ufficiali di “consenso” – praticamente plebiscitarie, secondo le elezioni più recenti – sono un segnale inquietante. Stando alla sua carriera politica e alle sue prospettive future, è un uomo che si pone come indispensabile per il suo Paese: ha legato la sua stessa esistenza a quella del Rwanda, ne è diventato il “salvatore” che ha arrestato il fiume di sangue, nonché il rifondatore della comunità dei sopravvissuti. Secondo gli standard occidentali, dovrebbe lasciare spazio ad una nuova classe dirigente, ad una nuova generazione, ma forse questo è il passo più difficile, addirittura impensabile per un uomo che vuole mostrarsi un condottiero, colui che ha compiuto il miracolo di risollevare il Rwanda e che ambisce a renderlo autonomo. Kagame intende stupire i suoi ospiti internazionali applicando su larga scala il modello occidentale del “decoro urbano”, quello del nascondere chi e cosa incrina la sua narrazione prodigiosa e la sua figura “taumaturgica”. Eppure, nonostante tutto ciò, i suoi successi sono reali: dopo quasi trent’anni dall’inferno, il Rwanda è il secondo Paese in Africa per fare business, il più sicuro del continente in base alle statistiche ufficiali, il nono al mondo per esser donna, tra i primi cinque Stati a contribuire al peace-building attraverso missioni di pace.
In un incontro avvenuto a Kigali ai primi di luglio con sessanta giovani rwandesi che vivono in varie nazioni europee, in visita per una settimana nel loro Paese di origine, Vincent Biruta, un alto dirigente del governo, ha annunciato prospettive ambiziose perché, ha detto, l’obiettivo è di «trasformare il Rwanda in un Paese ad alto reddito entro il 2050, mentre per il 2035 puntiamo a trasformare il Rwanda in un Paese a reddito medio-alto». Ha tutta l’aria di essere un’affermazione propagandistica, eppure il Rwanda da anni si è effettivamente guadagnato il soprannome di “Singapore d’Africa”: emergendo dalle ceneri di un evento epocale come il genocidio, in pochi anni è diventato un punto di riferimento economico della sub-regione centrafricana, nonostante la sua altrettanto forte crescita demografica. Agli inizi dello scorso agosto, il governo rwandese ha ricevuto 620 milioni di dollari da investitori internazionali, poiché la banca centrale ha emesso obbligazioni internazionali a un tasso di interessi annuo del 5%. I mercati obbligazionari, gestiti dai principali centri finanziari del mondo – da Wall Street a Londra, a Hong Kong –, sono molto interessati alla possibilità di vendere obbligazioni con rendimenti finanziari più alti rispetto a quelli che gli investitori possono avere nei loro Paesi d’origine. Ovviamente, questo aumenta il rischio di default, come è accaduto negli anni scorsi allo Zambia, che ora è sommerso di debiti, per cui il Fondo Monetario Internazionale sta valutando la possibilità di fornirgli una strategia di salvataggio.

L’accusa di sportwashing
A questo budget vanno aggiunti gli aiuti internazionali che il Rwanda riceve più di ogni altro Paese africano, fin dall’inizio dell’era post-genocidio, da numerose nazioni estere. Soprattutto l’Europa e l’America settentrionale hanno sostenuto la rinascita del Paese, fornendo grandi quantitativi di valute forti, per cui l’assistenza straniera è nel tempo diventata una delle maggiori fonti di reddito. Tuttavia, alcuni di questi aiuti sono stati parzialmente ritirati a causa delle montanti questioni sulle violazioni dei diritti umani, sulla limitazione delle libertà politiche e così via. Il tema si è posto soprattutto negli ultimi tre anni, quando il Rwanda ha sorpreso tutti diventando uno degli sponsor, nel maggio 2018, della squadra calcistica inglese dell’Arsenal, di cui il presidente Paul Kagame è tifoso. L’operazione punta alla costruzione di una nuova immagine del Paese, facendo apparire il logo “Visit Rwanda” sulle maglie di star calcistiche globali, ed è stato potenziato nel dicembre 2019, quando la sponsorizzazione si è allargata alla squadra francese del Paris Saint-Germain. In entrambi i casi si tratta di contratti da milioni di euro che, oltre alla grande visibilità per il Paese africano, favoriscono la promozione di prodotti e località rwandesi, sia all’interno dello stadio che attraverso video televisivi o altri media.
Parallelamente, però, sono aumentate anche le voci critiche, l’ultima delle quali, il 21 settembre 2021, su un giornale calcistico inglese online, il quale si domanda se i dirigenti e i giocatori dell’Arsenal siano consapevoli che il club venga utilizzato come strumento di “sportwashing” per migliorare la reputazione del Rwanda. Michela Wrong ha detto che per l’Arsenal è «come essere sponsorizzato da Pinochet» e che l’accordo è «un insulto ai contribuenti britannici». Anche i tifosi dell’Arsenal Supporters Trust hanno preso posizione, affermando che «il club ha perso la sua bussola morale nel suo desiderio di massimizzare le entrate». La risposta della dirigenza del club è che la partnership riguarda unicamente la trasformazione della percezione comune del Rwanda, come dimostrerebbe – hanno aggiunto dal Ministero dello Sviluppo rwandese – l’aumento dei visitatori nel Paese africano: «Un anno dopo l’inizio della partnership, le entrate del turismo in Rwanda sono aumentate del 17% e i turisti dall’Europa sono aumentati del 22%». Questo avrebbe addirittura ripagato l’investimento, tuttavia sono tanti a ritenere che tali operazioni siano inappropriate per un Paese povero: «Perché non spendere questi soldi per gli ospedali? Perché non spenderli per l’istruzione?», ha insistito Wrong. D’altra parte, i contributi internazionali – ad esempio quelli provenienti dal DFID (Dipartimento britannico per lo Sviluppo Internazionale) e dall’USAID (Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale) – sono stati donati perché venissero occupati in casi di concreta necessità, non per sostenere ricchissime squadre di calcio.
Comunque sia, il Rwanda prosegue nella sua strategia di marketing internazionale; infatti, nel maggio del 2021 Kigali ha ospitato la prima edizione del BAL, il Basketball Africa League, cioè il primo campionato internazionale africano di basket per club, organizzato insieme alla NBA degli Stati Uniti, nel quale hanno partecipato stelle della pallacanestro americana e nuove speranze africane. A fine settembre, inoltre, il Comitato direttivo dell’Unione Ciclistica Internazionale (UCI) ha annunciato l’assegnazione dell’edizione del 2025 dei Campionati del mondo di ciclismo su strada proprio al Rwanda, che aveva presentato la propria candidatura due anni prima. Per la prima volta nella storia di questo sport, l’evento si terrà in Africa ed è indubbio che il Paese governato da Kagame segna in questo modo uno dei suoi maggiori successi, dal momento che quella gara coinvolge circa 5.000 ciclisti e oltre 20.000 delegati, venendo seguita da più di 200 milioni di persone in tutto il mondo tramite oltre 50 agenzie di media internazionali che mandano inviati e troupe nella nazione ospitante.

Verso il futuro
Oggi il Rwanda gestisce una delle migliori compagnie aeree in Africa o addirittura nel mondo: la Rwanda Air. L’agricoltura resta un pilastro dell’economia rwandese, ma è stata diversificata con tè e caffè, che così sono diventate le più importanti esportazioni del Paese; il settore dei servizi sta muovendo i primi passi e quello del turismo e delle attività edilizie cominciano a dare risultati positivi. Il tasso di povertà si è abbassato drasticamente e i tassi di mortalità infantile stanno diminuendo. Gli investimenti diretti esteri sono elevati e se la crescita economica proseguirà, è verosimile che la creazione di maggiori entrate permetterà un reinvestimento nei settori chiave, migliorando ulteriormente le condizioni di vita a migliaia di persone. Al momento, tutti gli indicatori principali – ad esempio istruzione, sanità, aspettativa di vita – sono migliorati; le donne rappresentano oltre il 60% dei parlamentari, il valore più alto al mondo, e anche sui diritti civili si vede qualche apertura in più rispetto agli altri Stati del continente: ad esempio, il Rwanda è uno dei pochi a non criminalizzare le relazioni omosessuali.
A questo quadro del Rwanda, fa da cornice il largo sostegno internazionale di cui ancora gode Paul Kagame, per cui il presidente si trova tuttora in una posizione sostanzialmente tranquilla, nonostante il suo nome venga sempre più spesso accostato a quello di dittatori come Mobutu e Gheddafi, tutti circondati da un’ampia corte di adulatori. Il Rwanda di domani, però, forse può essere intravisto nella nuova generazione, in particolare tra i giovani artisti e i pionieri dell’imprenditoria culturale locale, secondo i quali nel Paese c’è una vera e propria «ondata di energia creativa». Per diversi artisti visuali, musicisti e cineasti rwandesi, il loro Paese è «un luogo sperimentale» in cui rompere il modello nord-sud, cioè quello in cui il trasferimento di conoscenza è unidirezionale. Un esempio molto recente è il film “Neptune Frost”, presentato al Festival di Cannes 2021, diretto dall’americano Saul Williams e dalla francese di origine rwandese Anisia Uzeyman. Tra le varie proposte della 74ᵃ edizione, questa è stata considerata la più innovativa perché, con un’estetica afro-futurista, tratta una storia d’amore tra un hacker africano e un minatore di coltan in fuga, all’interno di un contesto di guerra.
Kagame non sarà presidente per sempre e la storia ci dirà se il suo potere ultradecennale avrà costruito un Paese risollevato dal dolore del 1994 o se avrà causato una nuova ferita nel corpo già martoriato di quella società. Nei 27 anni trascorsi dall’enormità del genocidio, ogni rwandese ha tentato innanzitutto di ricostruire le proprie geografie familiari, di ricucire lo squarcio tra generazioni e tra etnie, probabilmente senza riuscirci mai del tutto. Il governo è in grado di garantire un passaggio di consegne con altre personalità, con altre visioni? È, evidentemente, la questione che si pone ora, tutta proiettata verso l’avvenire; un futuro che per poter essere pensato e realizzato deve basarsi su un presente equo e giusto.

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