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Il ricordo di Tim, fotoreporter che amava e raccontava l’Africa

Il 20 aprile sarà sempre per me una data dolorosa.
Con un colpo di mortaio moriva a Misurata, in Libia, Tim Hetherington: grande fotoreporter, uomo straordinario e soprattutto mio amico.

A distanza di 8 anni, dopo la rabbia e lo sconforto, resta la memoria dell’esempio virtuoso di buon giornalismo, che gli era valso riconoscimenti importanti come il World press Photo nel 2007 e il premio come miglior documentario al Sundance Film Festival  nel  2010, ma soprattutto dell’umanità immensa che trasudava da ogni suo poro.

Forte, integro e con una spiccata sensibilità, Tim non era soltanto un reporter in gamba, era un giornalista solidale. Quando arrivava sul campo un nuovo collega, mai stato prima in una zona di guerra, non esitava a dargli consigli.

Era una persona che si poteva ‘solo’ amare.

A chiunque, ovunque andasse, Tim piaceva.
Da subito.
Appena dopo averlo incontrato era scontato suscitasse simpatia, che si instaurasse un feeling immediato.

Quando nell’aprile del 2011, a soli 41 anni, è stato colpito a morte da un proiettile shrapnel, ho perso un amico e un riferimento importante. L’empatia che dal primo momento era scaturita tra noi, quando lo avevo incontrato nell’ottobre 2010 a Londra, ha contraddistinto da subito il nostro legame, saldato dalla passione per l’Africa e i diritti umani.

“Ciò che faccio, ogni scatto, ogni fotogramma di reportage che monto, mi coinvolge a livello emotivo” mi disse quando parlammo del suo contributo alla campagna di Human Rights watch sulla crisi in Darfur, che coinvolgeva anche me.

Ogni volta, ricordando le parole di Tim, ritrovo l’essenza del sacrificio di coloro che hanno dato o rischiano la vita ogni giorno per fare informazione e per raccontare la realtà così come si presenta, senza filtri e senza censure.

Descrivere i fatti, denunciare abusi, violazioni di diritti umani e alzare la cortina di silenzio che copre spesso notizie che non trovano spazio sui media di massa, è ciò che da’ un senso all’operato di qualsiasi giornalista.
O almeno così dovrebbe essere.

Quando colleghi animati da questi ideali sono consapevoli di rischiare sulla propria pelle, come Tim, difficilmente si tirano indietro. Giornalisti che di fronte a situazioni di grande criticità e questioni off-limits non si arrendono. Proprio persone come Tim hanno infuso in me la forza di denunciare le vessazioni e gli  abusi che avvengono in qualsiasi luogo perché lasciare che essi rimangano nel silenzio e siano perpetrati impunemente, come diceva Martin Luther King, è una minaccia per la giustizia ovunque. Pensando a colleghi come Tim, alla loro intensa e incondizionata capacità di raccontare le vicende di chi non ha voce, appare ancor più stridente l’indifferenza del mondo dell’informazione italiano nei confronti di temi importanti come i diritti umani e le crisi dimenticate.

Oggi, da direttore di un magazine nato proprio per spezzare le logiche dell’indifdernza, ricordare Tim ha una valenza ancora maggiore. Con la consapevolezza che non sia facile continuare a illuminare questi mondi oscurati  ma con la determinazione a far crescere e difendere fino in fondo questo spazio informativo anche grazie all’editore che ha creduto in questo progetto, Chiara Cavallo. Con la forza e la caparbietà che mi hanno portata fin sui.

Sempre.

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