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Il mio nome è Meriam. La speranza della sentenza di Appello. VII capitolo.

La luce che filtrava dalla grata della camerata dove meriam trascorreva i giorni successivi al parto era più intensa che mai. il sole era alto e l’aria calda e avvolgente. Un tempo perfetto, come riesce a essere a Khartoum solo prima dell’estate. peccato che lei e i suoi bambini fossero rinchiusi in una stanza fredda e spoglia del padiglione sanitario del carcere e non potessero goderselo se non durante l’ora d’aria.
Erano passati cinque giorni dalla nascita di Maya, che le era placidamente attaccata al seno. nonostante i patimenti fisici e mentali, il malessere e lo squallore della sua condizione, aveva latte sufficiente sia per lei sia per martin, che ogni tanto ne chiedeva.
Quella mattina era serena, aveva il cuore leggero e anche le caviglie. finalmente era senza catene. Il medico che l’aveva visitata, grazie alle insistenze degli avvocati, era stato inflessibile: la detenuta era troppo debole e provata, non poteva più restare incatenata. Poche ore dopo era arrivata l’autorizzazione della direzione, che disponeva le venissero tolti i ceppi prima del rientro in cella. Era stata una sensazione fantastica, un soffio di libertà.
La stessa che si respirava a Khartoum da qual- che giorno.
La corte d’appello aveva incardinato il procedimento di revisione della sentenza e gli avvocati della difesa ritenevano ci fossero notevoli possibilità che il verdetto di primo grado venisse ribaltato.  Il problema era che, se non fosse stato annullato, sa rebbe stata applicata la prima parte della sentenza e Meriam avrebbe ricevuto cento frustate per il reato di adulterio. Se poi lei, così fragile e provata, fosse sopravvissuta alla fustigazione, avrebbe trascorsi i due anni successivi nell’attesa che l’esecuzione della pena di morte per impiccagione, congelata fino a quando non avesse finito di allattare, venisse eseguita.
Nulla, però, sembrava scuoterla. meriam era sicura che sarebbe uscita da quella prigione e sarebbe tor- nata più libera di prima. passava le giornate a pen- sare al suo futuro e a quello dei suoi bambini, cer- cava di immaginare come sarebbe stata la loro vita. la piccola stava bene, ma il parto era stato tormen- tato. meriam aveva la sensazione che ci fosse qual- cosa che non andava, specie alle gambe, che le sem- bravano particolarmente deboli e che teneva raccolte in una posizione quasi innaturale, e temeva che, in futuro, avrebbero avuto problemi a camminare.
Le sue attenzioni, come normale, erano quasi tutte per la neonata e Martin ne risentiva. a volte diventava aggressivo, specie con la sorellina. Vivere in cella per un bimbo di nemmeno due anni era destabilizzante. non essere più al centro dell’attenzione della mamma aveva aumentato il disagio. anche per questo meriam sperava – doveva sperare – che presto sarebbe stata libera di riprendersi la propria vita e di darne una ai suoi bambini.

***

Mentre a Khartoum meriam veniva liberata dalle catene, i segnali positivi che ci incoraggiavano a sperare in una soluzione positiva della vicenda erano sempre più numerosi e il supporto delle istituzioni più forte. Dieci giorni dopo averla ricevuta, il presi- dente napolitano rispose alla nostra lettera, assicu- randoci che seguiva il caso con «viva partecipazione» e che, in accordo con il governo e nel pieno rispetto della sovranità del sudan e del principio di separa- zione dei poteri, auspicava che le parole dell’amba- sciatrice gornass sulla possibile revisione del pro- cesso fossero «tempestivamente confermate».
Nelle stesse ore, il Senato degli Stati Uniti aveva approvato all’unanimità un atto bipartisan che ri- prendeva le indicazioni della casa bianca e del dipartimento di stato, e non si limitava a condannare l’accusa di apostasia e la pena che avrebbe prodotto, ma chiedeva la «liberazione immediata e incondizio- nata» della giovane. pochi giorni dopo, il segretario di stato John Kerry si disse «molto preoccupato» per una sentenza che colpiva la moglie e i figli di un cit- tadino statunitense.
a meno di un mese dall’avvio della campagna, oltre al gran numero di sottoscrizioni, avevamo ri- cevuto migliaia di email e di messaggi di sostegno e adesione. Dopo il presidente del consiglio matteo renzi, il ministro degli esteri federica mogherini e il presidente napolitano, anche l’Unione europea espresse sconcerto e preoccupazione per la sorte di meriam. con una nota che sosteneva la mobilita- zione internazionale a favore della ventisettenne su- danese, i presidenti del consiglio europeo, Herman Van rompuy, della commissione, José manuel bar- roso, e del parlamento, martin schulz, ricordarono che «la libertà di religione è un diritto universale che è altamente valorizzato dall’Unione europea e che necessita di essere protetto ovunque e per tutti». le massime autorità europee, che definivano il ver- detto «disumano» e chiedevano il rilascio immediato della donna, ricordavano che il sudan aveva ratifi- cato diversi trattati con l’onU e l’Unione africana, nei quali si era impegnato a difendere e a promuo- vere la libertà di culto, che comprendeva la possibi- lità di adottare, cambiare e abbandonare qualsiasi religione sulla base di un atto volontario.
Quando raccontavo a Daniel che le istituzioni americane ed europee seguivano la vicenda con attenzione e che la società civile, soprattutto quella italiana, era schierata al loro fianco, faticava a trattenere l’emozione. continuava a ripetermi quanto quella vi cinanza fosse importante, quanto lui e la sua famiglia ne fossero grati. Quando gli raccontai che alcune as- sociazioni cattoliche avevano organizzato una mar cia pacifica e solidale da macerata ad ancona, e che una moltitudine di giovani aveva trascorso la gior- nata a pregare per meriam, martin e maya, rimase senza parole.
«il fatto che in italia e in europa ci siano dei cri- stiani che pregano per noi… sentire la loro vici- nanza… è qualcosa di indescrivibile…» balbettava. «sapere che i loro cuori battono con i nostri è la di- mostrazione che niente accade per caso e il signore è sempre al nostro fianco… che Dio vi benedica» di- ceva con trasporto «e che vegli su mia moglie.»
la notizia che il presidente napolitano aveva fatto sentire la sua voce lo riempiva di fiducia. il fatto che avesse usato certe parole, che avesse preso una po- sizione così forte e chiara lo rassicurava. anche per- ché, mi confidò, si sentiva più tutelato dalle autorità e dalla diplomazia italiana che da quella statunitense, nonostante fosse cittadino americano. tutto sommato era una percezione giusta, fondata. l’italia stava facendo molto più di quanto potesse e dovesse fare per arrivare alla soluzione del caso.

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