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Il Burundi e i suoi sessant’anni: chi uccise il presidente Melchior Ndadye?

Il primo luglio il Burundi, uno dei più piccoli Paesi africani, festeggerà il sessantesimo anniversario della sua indipendenza. Come mai in questa nazione la democrazia non è ancora riuscita ad impiantarsi stabilmente? Per rispondere a questa domanda, dobbiamo andare indietro nel tempo e parlare di quel che è successo una trentina d’anni fa.

Il primo giugno 1993, con elezioni libere e democratiche, Melchior Ndadaye viene eletto presidente della Repubblica con il 66% dei voti. È il primo Presidente hutu della storia del Burundi, ma non è né un fanatico, né un fazioso e lo dimostra subito. Il suo partito, il FRODEBU (Fronte per la democrazia in Burundi) ha ottenuto l’80% dei seggi in Parlamento e il Presidente non avrebbe quindi bisogno di formare un governo di coalizione; Ndadaye, invece, decide di formare un governo multietnico e multipartitico, con un primo ministro donna, Sylvie Kinigi, tutsi e membro del partito UPRONA (Unione e progresso nazionale). È opportuno sottolineare che è la prima volta nella storia dell’Africa che una donna viene nominata primo ministro. Nel nuovo governo, quattordici ministri sono hutu, mentre otto sono tutsi, quasi tutti membri dell’Uprona, che è il partito che ha governato il Burundi, spesso dispoticamente, fin dal giorno dell’indipendenza. C’è infine anche un ministro ganwa, cioè un esponente della famiglia reale.
Uno dei primi atti del nuovo governo è l’abolizione della pena di morte, accompagnata da un’amnistia generale. Durante uno dei primi consigli dei ministri, il Presidente fa la seguente dichiarazione: “La mia esperienza in prigione è stata così orribile che non augurerei a nessuno di fare un’esperienza simile”.
Ndadaye poi si reca negli Stati Uniti e, il 4 ottobre 1993, così si esprime durante una conferenza stampa a New York: “Non voglio che ci sia ancora spargimento di sangue in Burundi: non voglio vedere una sola goccia di sangue innocente nel mio amato paese. Voglio costruire una società nella quale l’uguaglianza non sia solo un pensiero o uno slogan: una società in cui la libertà e la giustizia siano disponibili per tutti”.
Il governo di Melchior Ndadaye dura poco più di cento giorni: nella sera del 20 ottobre, la voce di un imminente colpo di stato si diffonde in tutta Bujumbura. Durante la notte, i soldati golpisti attaccano la residenza del Presidente e riescono a neutralizzare facilmente i pochi uomini della guardia presidenziale. La mattina del 21 ottobre, verso le 8.30 Ndadaye viene portato in uno dei campi militari di Bujumbura da un commando di paracadutisti del primo regimento: tra gli ufficiali che danno gli ordini c’è il colonnello Bikomagu. Secondo la signora Ndadaye, è lui che dice ai soldati: “Ecco il vostro uomo, fate di lui quello che volete”. Il colonnello Bikomagu sarà poi ucciso nell’agosto 2015. Prima di mezzogiorno, Melchior Ndadaye viene ucciso, insieme a sei dei suoi ministri (tutti hutu); i corpi delle vittime sono sepolti in una fossa comune.
Il Presidente non è stato ucciso, come erroneamente scritto da qualcuno, perché stava preparando il genocidio dei tutsi, ma perché metteva legittimamente in discussione la supremazia dei militari e degli estremisti tutsi, poiché in uno stato democratico non sono i soldati, ma le istituzioni legittimamente elette che devono governare il Paese. Melchior Ndadaye non era affatto un estremista hutu: per questo motivo, il presidente del Ruanda Habyarimana, lui sì estremista hutu, aveva preso le distanze da lui, come aveva fatto anche il dittatore dello Zaire, Mobutu Sese Seko.
Lo scrittore burundese David Gakunzi ha parlato di Ndadaye come di un leader carismatico e popolare; l’ambasciatore americano Robert Krueger, in un suo libro del 2007 (“From bloodshed to hope in Burundi”), lo descrive come “un uomo eccezionale”. Io sono d’accordo con entrambi e aggiungo un episodio che descrive quando fosse amato dal suo popolo: un giorno, mentre il Presidente viaggiava in una strada di campagna, l’autista vide che alcune persone si erano sdraiate sulla strada. Era un espediente per costringere la macchina a fermarsi e per poter toccare il Presidente, come i fedeli toccano il corpo di un santo.

Sono sicuro che, se Melchior Ndadaye non fosse stato assassinato, oggi il Burundi sarebbe uno dei Paesi più stabili e democratici dell’Africa. Il suo assassinio, invece, ha aperto la via ad una spirale di violenza che, purtroppo, dura fino ai nostri giorni.

Giuseppe Liguori

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