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Etiopia, una catastrofe umanitaria annunciata ed ignorata

Il nord della regione Afar continua ad essere lo scenario di combattimenti. L’attacco al campo profughi eritreo di Behrale. Il blocco degli aiuti umanitari diretti nel Tigray continua. Quale futuro per il paese?

 

Le guerre sono tutte uguali, o quasi. Cambiano gli armamenti, le forze messe in campo, le parti in conflitto, paesi e continenti, le scene a cui assistiamo sono sempre le stesse: fiumi di persone in mezzo a combattimenti,  sotto i bombardamenti, vittime di violenze indicibili, sfollate in casa propria, in fuga dalla morte con i bambini in spalla, ma – e questa è la differenza – cambia l’interesse verso di esse, cambia la copertura mediatica, cambiano le risposte alle emergenze.

Oggi siamo giustamente coinvolti nel conflitto ucraino, per vicinanza geografica e per le potenziali conseguenze che l’aggressione russa potrà avere per tutto l’Occidente.

Ma vi è un conflitto, come quello etiope, che si protrae da ben 16 mesi, che oltre all’ovvia serie di violenze e distruzioni, ha determinato la più grave crisi umanitaria a livello mondiale. Eppure a parte gli addetti ai lavori, il conflitto non ha destato grande interesse nella comunità internazionale, venendo derubricato ben presto come uno degli innumerevoli e ciclici conflitti che caratterizzano il continente africano.

Oggi in Etiopia, di cui si parla ancor meno di alcuni mesi fa, le cose sul campo sono notevolmente cambiate, il fronte si è spostato anche ad est e nella regione somala e in Oromia si registrano scontri con le forze federali.

Se nel Tigray e nella regione Ahmara la situazione si presenta come relativamente calma e non presenti, almeno per questi giorni, fatti degni di nota, proseguono i combattimenti nella regione Afar. Scontri armati tra le milizie Afar ed il TDF continuano a registrarsi a Berhale, Erebti, Konebasi ed Abala, nella zona di Kilibeti, creando ulteriori sfollati e limitando ancor di più l’accesso degli aiuti umanitari destinati a tutto il nord dell’Etiopia.

Secondo le autorità della regione Afar, le persone coinvolte dai combattimenti sarebbero per lo più pastori,  220000 civili interessati dal conflitto, intrappolati in zone remote difficilmente raggiungibili, senza alcun accesso a servizi umanitari di sussistenza o servizi per emergenza. Nella regione Afar, la mancanza di una rete di assistenza adeguata e la crescente richiesta di servizi, sta creando un’ulteriore emergenza nell’emergenza, al netto degli sforzi che l’Unhcr e l’amministrazione regionale stanno affrontando ed intensificando negli ultimi giorni.

Photo credit: OCHA

In tutte le zone colpite, l’accesso a cibo, a luoghi sicuri, ai servizi per la salute, all’istruzione, ai servizi igienici, all’acqua ed all’energia sono pressoché inesistenti.

Il 18 febbraio, migliaia di rifugiati eritrei del campo di Behrale, fuggiti dopo che la zona è stata inghiottita nell’inferno dei combattimenti, hanno trovato riparo provvisorio a Semera, a Altefa e ad Dabure.

Arrivati a destinazione hanno riferito agli operatori delle agenzie delle Nazioni Unite che il 3 Febbraio degli uomini armati sono entrati nel campo, occupando case e tende, rubando tutto quello che riuscivano a portar via, uccidendo coloro che protestavano e rapendo alcune donne. Il caos della fuga avrebbe reso irreperibili centinaia di persone, di cui oggi si disconosce la posizione; il governo regionale, in seguito al loro arrivo, ha previsto il trasferimento di migliaia di persone a Serdo, a 40 km dal capoluogo della regione Afar, dove verrà allestito un campo dedicato.

Il blocco della direttrice Semera-Abala-Mekelle ha reso l’invio delle colonne di aiuti umanitari praticamente impossibile. Operazioni umanitarie colpite nel cuore, con un misero 8% di veicoli di aiuti arrivato a destinazione nel Tigray, dal 12 Luglio 2021; ancor più piccola è la percentuale di quelli giunti nella regione Afar. 

Anche se a tale blocco si sta cercando di sopperire con aiuti via aereo, passando a 97 tonnellate di merce trasferite in questo ultimo mese, la mancanza di sicurezza e di carburante rimane il maggior ostacolo per le agenzie sul campo nel portare a destinazione gli aiuti umanitari di cui la popolazione necessita.

Ciò che le agenzie prefiguravano e che oggi è realtà è la più grande catastrofe umanitaria mondiale, con 9.3 milioni di persone coinvolte nel conflitto nelle regioni del Tigray, Ahmara ed Afar e 63110 rifugiati dal 7 Settembre 2020 in Sudan.

Oltre 1.6 milioni di donne e bambini nel Tigray, 1.4 milioni nella regione Ahmara e 80000 nella regione Afar necessitano di assistenza preventiva per la malnutrizione e solo nel Tigray sono 667000 le donne in stato di gravidanza o allattamento ed i bambini che presentano sintomi legati alla fame ed alla denutrizione e che necessitano di assistenza immediata.

La stessa Chiesa Cattolica, attraverso la Commissione diocesana sociale e dello sviluppo di Adigrat, il 17 Gennaio aveva lanciato un appello disperato affinché si agevolasse l’accesso agli aiuti umanitari e la creazione di corridoi umanitari, si ripristinassero i trasporti, l’elettricità e le comunicazioni telefoniche, ponendo rimedio ad un assedio alla regione che ha pesato fortemente sui diritti fondamentali della popolazione. 

Ma ad oggi, come confermato dal comunicato dal Tigray External Affairs Office, il blocco rimane in atto. 

“Perché il mondo rimane così tranquillo? – ha affermato una fonte della Diocesi all’Agenzia Fides- Perché in questo mondo di grande abbondanza le persone stanno morendo di fame? Il cibo c’è ma è bloccato. Per quale motivo? Tutti devono sapere che il Tigray è sotto shock, che i bambini stanno morendo e il mondo sta a guardare”.

Il Tigray è una regione completamente distrutta, con il 90% delle strutture sanitarie fuori uso; una regione nella quale gran parte delle infrastrutture sono andate perse, dove scuole, chiese e monasteri, cimiteri e moschee sono state colpite o devastate e dove le persone che risiedono nei grandi centri abitati, paradossalmente, sopportano il peso maggiore del conflitto, non avendo accesso a denaro per gli acquisti e per l’affitto, al gasolio (praticamente introvabile), all’acqua potabile, al cibo per sfamare le proprie famiglie.

La guerra che sta sconvolgendo il nord dell’Etiopia prima o poi finirà, ma l’impatto a livello umanitario è e sarà enormemente al di sopra di ogni aspettativa.

Ma è l’impatto a livello sociale, ad oggi poco contemplato – colpevolmente anche da noi giornalisti – che peserà maggiormente sul paese. In particolare i giovani ed i giovanissimi, oggi privati di tutto, potrebbero divenire il brodo di coltura di rivendicazioni dettate dall’odio e dal risentimento per decadi, un processo che ben sappiamo essersi innescato in altri contesti bellici.

Le guerre sono tutte uguali, o quasi. Lungi da me innescare “una guerra” -sic!- tra poveri, ma osservare è lecito e descrivere è un dovere, almeno per noi. Cosa è accaduto e cosa accade lo abbiamo riportato con molte difficoltà in più rispetto a ciò che accade oggi in Ucraina, dove per la prima volta ci siamo trovati di fronte ad una guerra riportata per intero sui canali social di tutto il mondo. 

Le immagini, i video e le testimonianze a disposizione se messe a confronto con la mole di dati che abbiamo su questo nuovo conflitto, sono enormemente inferiori; spesso la loro verifica è stato un processo difficile e laborioso, ma ciò che è accaduto e ciò che ancora accade, sono fatti. 

In mezzo a questi fatti, ci sono persone in carne ed ossa, vite, storie, affetti e relazioni e questo è l’unico aspetto che accomuna tutte le vittime di guerra.

Parafrasando Primo Levi – non me ne voglia- tutto ciò è ancora oggi, in Etiopia, Africa.

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